L’Italia delle lettere è rimasta orfana di Pier Vittorio Tondelli
27 Giugno 2010
Bologna, Bologna! Un sogno venirci, quando le serate nelle lande della vicina Bassa sembravano offrire nulla più che la solita, triste passeggiata per le vie del borgo ad inseguire fantasmi tuoi-solo-tuoi con i veciii che ti guardavano storto interrompendo la milionesima partita a tre sette e il bicchiere di vino? Bologna e i secondi anni Settanta, Bologna e il Dams, Bologna e la sensazione, la certezza, che le cose stanno cambiando e che, no, tu devi esserci, di quel cambiamento devi essere un artefice. Mica subirlo da lontano, lasciartelo scivolare addosso come troppi hanno fatto prima di te. E all’ombra delle torri ci sei arrivato, certo. E con te un sacco di altri. Giovini, giovinastri direbbe qualcuno. Una masnada di scioperati e tiratardi provenienti da tutto lo stivale che invece di cominciare a pensare a programmare il futuro come imporrebbe il mos maiorum, vuol fare cose. Molte, di sicuro creare. Una cultura nuova, soprattutto. Diversa. Ridisegnare un futuro che parli, una buona volta, con la voce dei giovani anche in Italia, che sappia fare le pernacchie a tutte le zavorre ideologiche e stilistiche della tradizione per creare artisti "altri", lontani dalle ombre inquietanti della codifica e della deferenza, capaci, insomma, di respirare con polmoni pieni (magari un po’ troppo bruciacchiati dalle sigarette, questo sì) l’odore buono che si diffonde quando sei, come si dice oltreoceano, in the middle of the scene, al centro della situazione ( e sei cosciente di esserlo).
Il problema, però, è che tu tendi al solitario, fai fatica a fare gruppo. Sarà forse per quel carico di indecisione e goffaggine che ti porti dalla natìa Correggio o, molto più probabilmente, perché quello che ti piace davvero è startene defilato, nel bozzolo protettivo del tuo punto d’osservazione. Presente, ma distaccato. Con la possibilità di poterti ritirare appena le cose non stanno andando come vuoi. E poi c’è tutto quello che stai scoprendo faticosamente dentro di te, a frenarti. La tua identità, così difficile da proteggere nei suoi moti vorticosi, così fuori luogo in questa festa a ciclo continuo che sembra essere la vita da studente fuori sede nella grande città. Non che non ti piaccia stare con gli altri, aprirti o fare l’alba con qualcuno a parlare di musica, libri, grand’uomini. Questo no, ma? difficile da spiegare! È che all’ennesima sbronza sotto i portici del centro e/o alla voglia di incontrare altri ragazzi, preferisci il rintanare quella tua figura lunghissima e allampanata nella quiete di una stanzetta, con il conforto caldo e mai invadente degli oggetti. Libri, soprattutto, probabilmente i tuoi migliori amici. Ma anche dischi, perché sai che la musica, fuori dai nostri confini piccoli piccoli, non ha niente a che fare con le canzonette nazionalpopolari. Tu lo sai: ci sono tanti ragazzi della tua età che con una macchina da scrivere e una chitarra si stanno sbattendo per dare al mondo qualcosa di nuovo, di (davvero) inusuale.
Ecco, il punto è proprio questo: cercare di capire qual è il modo giusto per saltare fuori dagli schemi. Come rotolare via dal labirinto dei soliti percorsi e tracciare una strada che sia maestra non soltanto per te, ma possa divenir sentiero per cento altri viandanti dall’anima inquieta e bisognosa di esprimersi. Quando hai cominciato l’avventura in terra felsinea, una delle prime cose che hai messo in valigia è stata una risma di fogli vergati fitti-fitti. Dentro, ci sono storie quasi complete e racconti appena abbozzati. Un gran casino, non c’è che dire, ma anche la sensazione che, almeno in fieri, stai plasmando un’opera rivoluzionaria. Te ne rendi perfettamente conto, perché hai cuore e talento, e questo ti fa sentire tutto il peso, la responsabilità della creazione. Lavori a ciclo continuo, quindi. Di giorno, di notte, ogni qual volta le pause universitarie e l’ispirazione te lo consentono. E con l’accanimento feroce di chi sa che anche il più periferico degli aggettivi, che anche la più marginale delle frasi ha bisogno di un’attenzione ai limiti del paterno per rendere al massimo. Ed è per questo che, mano mano, ogni passaggio si fa più fluido. Il racconto procede, un colpo di cesello la volta, trova la sua corretta alchimia e si libera senza deludere. Un po’ ti ci viene anche da ridere, diciamolo! Quello che stai facendo, il grande segreto che sembri aver carpito da Sua Altezza, "il Dono dello Scrivere" è di una elementarità che ti sembra fin troppo ovvia: non siamo noi a dover creare la vita sulla pagina, ma è la vita che deve crearsi da sola e parlare di sé.
Basta con quelle pose da demiurgo letterario! Basta imbrigliare l’arte del racconto facendo finta di avere chissà quale bacchetta magica rispetto agli altri comuni mortali! Okay l’ispirazione, d’accordo il vocabolario più fornito, ma quel che bisogna davvero è essere testimoni, avere il coraggio di abbattere il muro di pietra che impedisce ai fatti nudi e crudi di prendersi l’intera scena. Questo vuol dire, non soltanto non sottacere mai nulla di quel che si vede, ma anche avere l’umiltà di riconoscere che per dirlo al meglio, al posto del lemma forbito, a volte può (forse deve) sostituirsi la più umile e corriva delle parole, possa anche essa essere una parolaccia o una bestemmia, se il contesto lo richiede. Niente di più che vivere e raccontare come lo si fa. Senza artifici, senza preziosismi inutili. Insomma, come una specie di Hemingway (magari senza boria ed eccessivo machismo). E, d’altronde, non è certo la vita vissuta quella che ti manca. Basta leggere le prime pagine del tuo manoscritto per capire come la tua Bassa, quella che hai visto e "attraversato" con gli occhi attenti, non sia certo il posticino bello e a tratti fantastico cui ci aveva abituato il buon vecchio Guareschi. Niente Don Camillo e Peppone qui, ma Bibo, Molly, la Giusy, le Splash e una frotta di desperados pieni di slanci sanguigni che con le loro vicende sembrano catapultare nella più reale delle downtown americane.
Tuttavia leggendo, e qui sta il bello, si capisce benissimo che è d’Italia che stai parlando. Quella lontana dai clamori e dalle luci metropolitane, quella che annaspa silenziosa ma pulsante in luoghi che sembrano dimenticati da Dio e che, invece, ogni stramaledetto giorno, chiedono che si renda testimonianza della loro presenza e di quella di chi li frequenta. Tutto vero, tutto assolutamente vero. E il Postoristoro, le radio libere, i viaggi in autostop oltre i confini? Quello che vai raccontando, è un Belpaese che ha poco a che fare con i tric e trac e le tarantelle. Si parla di giovani, invece, dei loro sogni e delle loro speranze più reali, dei loro sprofondi emotivi e della loro confusione, ma anche di tutti i loro fantastici slanci, della loro vitalità e della voglia, soprattutto di questa, di sentirsi parte del mondo e delle grandi trasformazioni che si stanno verificando. Ed è bellissimo che tu lo faccia con un linguaggio che, pur attingendo così evidentemente dall’oralità e dalla cultura giovanile, si presenti con tutti i paradigmi e la dignità di una nuova lingua letteraria.
Bravo, sei davvero bravo. Dopo anni di lavoro e notti insonni, la tua opera vede finalmente la luce: Altri libertini. Siamo nel 1980 e, diciamolo chiaramente, l’Italia non è ancora pronta. Ti tocca addirittura affrontare un processo per oscenità e bestemmie che, in altri posti, avrebbe fatto ridere ma qui da noi è una seccatura terribile (oltre che un rischio non indifferente di bruciare già allo start le possibilità di una carriera da scrittore). Per fortuna, ne esci fuori veloce e pulito. E per fortuna anche il tuo libro esce dal mucchio selvaggio dei nuovi titoli e si conquista una ribalta. Certo, a livello di numeri non si può certo avvicinare alle cifre da monstre di certi best seller (come quelle del tuo ex professore Umberto Eco con Il nome della rosa, per esempio), ma vende bene e, soprattutto, attecchisce. I giovani di tutte e venti le regioni ora sanno che si può raccontare la propria storia, che c’è un modo nuovo e personale di fare cultura, che non devono aver paura di mettere mano alla penna e mettere su carta quello che vedono, quello che sentono, anche se abitano nel più misconosciuto paesino della provincia.
Chissà se, nell’emozione del tuo nuovo ruolo di guida dei giovani talenti, riesci ad immaginarti le proporzioni di quello che hai fatto… Forse no, forse te ne sfugge completamente la portata perché con la mente e con il cuore sei già avanti, proiettato nella tua incessante introspezione e verso nuove sfide letterarie che non lasciano il tempo neanche ad un rapido (e meritato) autocompiacimento. Ci piace dirti, ora che non ci sei già più da un pezzo, che grazie all’audacia e al coraggio di quel tuo primo libro tante cose sono cambiate. Trenta lunghi anni, Pier Vittorio (o Piervittorio, come avresti preferito tu)! Chi avrebbe mai immaginato che il mondo dell’editoria e il mondo dei media tutto si sarebbe finalmente accorto dell’infinito potenziale che alligna nei nostri giovani? Chi avrebbe immaginato che dei ventenni avrebbero potuto scalare le vette delle classifiche di vendite e scrivere dei libri che si vendono a centinaia di migliaia di copie? Chi avrebbe immaginato che il concetto stesso del mestiere dello scrivere si sarebbe potuto ridefinire, nei termini e nella sostanza, in modo così sostanziale? Perciò, grazie Pier Vittorio. Grazie per averci "liberato" e averci fatto scoprire che, mai e poi mai, dobbiamo avere paura di alzare la voce e metterci a raccontare.