L’Italia deve riformare la propria fiscalità per competere nel mondo
31 Marzo 2012
Le filosofie fiscali dei paesi sviluppati sono nate e si sono sviluppate in un periodo di economia industriale e riflettono, nel bene e nel male, un mondo che oramai non esiste più. In un mondo pre-globalizzato, industrie e capitali erano principalmente stanziali e le imposte riflettevano un approccio culturale differente, che col tempo è diventato sempre meno efficace.
Per efficace si intende un sistema che sia semplice, equo e che non crei eccessivi effetti distorsivi, di cui nei sistemi europei si sprecano gli esempi: dai codici fiscali attuali che hanno raggiunto dimensioni monstre, alla segretaria di Warren Buffet che paga un’aliquota più alta del suo datore di lavoro, dall’elevata evasione effettiva di lavoratori non dipendenti alla perdita di imposizione verso regimi fiscali più efficienti (immobili registrati a Santa Lucia anyone?).
Nel mondo globalizzato del 2012 la politica fiscale di un paese rappresenta di fatto una scelta sul sè e come attrarre investimenti nel proprio paese, e fa parte di un’offerta che un determinato paese offre ad investitori domestici e stranieri che ogni giorno scelgono dove investire il proprio capitale, insieme a fattori altrettanto rilevanti come la trasparenza ed affidabilità del proprio sistema giudiziario, il talento che si può assumere e le infrastrutture messe a disposizione.
Alcuni paesi sono riusciti ad accettare questa sfida e trasformarla in un volano per la crescita (basta pensare agli investimenti stranieri attratti in Irlanda e Spagna pre-2007), ed un dibattito si è recentemente aperto su come incentivare la crescita economica e lo sviluppo di un paese tramite le proprie politiche fiscali in un mondo globalizzato.
Di fatto le aliqoute, sia su base assoluta che relativa, influenzano non solo nuovi investimenti, ma anche scelte economiche fondamentali su some allocare risparmio e consumo, con effetti molto forti sulla struttura economica di un paese. Ad esempio la tassazione di favore su immobili e titoli di Stato ha, prima delle ultime riforme, sempre incentivato questo tipo di risparmio in Italia. Un recente dibattito lanciato dall’Economist ha stimolato riflessioni su sè e come riformare le imposte sulle aziende e sui capitali per rilanciare la crescita.
Le proposte sono radicali ma offrono spunti molto interessanti. Hal Varian, famoso economista e Chief Economist di Google sostiene che abbassando le aliquote per le aziende, ma sempre tenendole al di sopra delle aliquote individuali, e rendendo la tassazione più trasparente, cioe’ tassando dove il reddito viene prodotto, non dove viene trasportato contabilmente, si eliminano effetti distorsivi e si stimola la crescita delle aziende nel proprio paese.
David Li, professore alla Tsinghua University, invece si concentra sull’eliminazione della distinzione tra capital gain, reddito da capitale e reddito da lavoro, in modo da evitare gli effetti distorsivi osservati sulla segretaria di Warren Buffett (che palle! ) ed eliminare qualsiasi tassaziona sul reddito risparmiato, di fatto mantenendo intatto un incentivo al risparmio. Puo’ sembrare strano ma quest’ultima politica è di fatto quella pù di “sinistra”, eliminando distorsioni evidenti per chi può societarizzare il proprio reddito.
Cosa ne concludiamo? Che riforme sono necessarie a livello internazionale e che i paesi piu’ determinati nel riformare il proprio sistema, in uno scenario globale non solo avranno un sistema piu’ equo, ma anche soprattutto piu’ investimenti, crescita economica e sociale