L’Italia deve ripartire al più presto e Di Pietro fa ancora i referendum
08 Ottobre 2008
Ieri è partito un referendum nazionale, quello ideato contro il lodo Alfano da Di Pietro e da una stravagante coalizione di urlatori giustizialisti e benpensanti antiveltroniani o antiberlusconisti. Sarà con ogni probabilità un altro buco nell’acqua, sulla scorta di tutti i referendum nazionali dal 1999 ad oggi. Grazie al cielo, si può ben dire, vista la materia del contendere.
La giustizia è uguale per tutti, recita il mantra dei promotori, ma ai cittadini è abbastanza chiaro che vero oggetto della consultazione popolare è l’opposto: se cioè l’ingiustizia debba essere uguale per tutti, e colpire indiscriminatamente non soltanto i singoli malcapitati ma anche il funzionamento delle istituzioni. Ogni paese democratico si dà qualche salvaguardia per impedire che un solo potere possa abusare di tutti gli altri. In un modo o nell’altro si tutela l’indipendenza della magistratura da una parte, il potere legislativo ed esecutivo dall’altro. Da noi no (e nemmeno in Israele).
Che non sia più stagione di referendum lo dimostrano anche le consultazioni locali. A Vicenza, referendum autogestito ma ben gestito, con 32 gazebo sparsi in città in luogo dei 32 seggi ufficiali, domenica scorsa hanno votato in 24.094 sull’allargamento della base Usa all’aeroporto Dal Molin, come richiesto dal centrosinistra. Il 28,5% degli aventi diritto al voto, che erano 84.349. Quorum comunque non raggiunto, perché se il referendum fosse stato formalmente valido avrebbero dovuto votare almeno 35 mila cittadini.
In Sardegna, sempre domenica scorsa, ha votato soltanto il 20,4% dei 1.471.797 aventi diritto sui referendum abrogativi sull’acqua e sulla legge "salvacoste", nonostante la mobilitazione del centrodestra e dello stesso presidente del Consiglio. Era necessario il voto di almeno il 35,5% degli elettori.
Insomma, nonostante l’antipolitica sbraitata nelle piazze e la saga letteraria della Casta, quando si tratta di assumersi una responsabilità comunitaria gli italiani si chiudono nelle quattro mura domestiche o vanno al mare.
Una funzione, però, il referendum di Di Pietro, Parisi e Segni, come quelli vicentini o sardi la conservano: col loro costante, ineluttabile, flop ci ricordano che l’Italia è l’unico paese democratico al mondo in cui il Parlamento non risponde agli eletti, il Governo non risponde al Parlamento, e gli elettori non rispondono neppure a se stessi.
Ad un’opposizione che parla di emergenza democratica, l’arma scarica dei referendum rammenta che da oltre un quindicennio c’è in Italia un arretrato di riforme costituzionali, regolamentari, elettorali così pesante da aver reso drammaticamente strutturale e per nulla emergenziale il “debito pubblico” democratico. E che l’opposizione da questa responsabilità voglia tirarsene fuori dopo aver sabotato riforme costituzionali e parlamentari di ogni genere è cosa grottesca.
Invece l’opposizione gioca in cortile. Fra marce di maestre in divisa nera e assemblee studentesche rosso fuoco si è aperta l’ennesima stagione dello “smantellamento della scuola pubblica” (tesi robustamente contestata da autorevoli esperti non governativi come l’ex ministro diessino dell’Istruzione Luigi Berlinguer o, cifre alla mano, da Luca Ricolfi). E, di fronte a una richiesta di voto di fiducia, riecco Veltroni a denunciare la vocazione autoritaria, cesarista, putinista, del grande capo. Eppure sa bene, avendo frequentato il piano nobile di palazzo Chigi, che ha mille volte ragione Berlusconi a denunciare i tempi impossibili delle decisioni del Parlamento.
Solo che né maggioranza né opposizione sanno probabilmente come rispondere al quiz dei quiz: come è possibile continuare a gestire un sistema politico dove il cittadino non conta nulla, il Parlamento non conta quasi nulla e il Governo non è messo in condizione di governare?