L’Italia e la transizione incompiuta

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L’Italia e la transizione incompiuta

16 Settembre 2007

Transizione è una parola
oscura, che non rimanda a nulla di preciso. Magari, qualcuno più in là con gli
anni ricorda come trenta o trentacinque anni fa, nella sbornia ideologica del
tempo, si facesse un gran parlare di transizione al socialismo, per indicare il
modo con il quale passare dal regno della necessità a quello della libertà.
Niente di tutto questo, per fortuna. Le scienze sociali parlano certo un
linguaggio tecnico, ma esso rimanda sempre a fenomeni valutabili empiricamente.
Transizione è una parola che gli scienziati politici usano per definire il
passaggio da un tipo di regime a un altro. Si distingue una transizione di genus,
che indica un mutamento di sistema politico (dalla dittatura alla democrazia,
da un regime totalitario a uno autoritario, etc.), e una transizione di species,
che indica il trapasso da un tipo di democrazia a un altro (dalla democrazia
consensuale a quella conflittuale, ad esempio). Un recente libro di Pietro
Grilli di Cortona (Il cambiamento politico in Italia. Dalla Prima alla
Seconda Repubblica
, Roma, Carocci, 2007, pp. 132, € 13,60) è rivolto a
studiare i mutamenti del sistema politico italiano e si incentra sul concetto
di transizione.

A parere dell’autore,
l’Italia ha conosciuto due transizioni. La prima, negli anni Quaranta del
secolo scorso, ha traghettato il paese da un regime dittatoriale, e da una
guerra persa, a un regime libero. La seconda transizione, ancora in corso, si
apre con il crollo della prima repubblica. Il consolidamento democratico
operato nel secondo dopoguerra fu senza dubbio un risultato notevole per una
nazione stremata e quasi distrutta, ma ebbe caratteristiche peculiari. La
legittimazione del sistema politico avvenne per il tramite decisivo dei
partiti, assumendo un carattere, per così dire “partitocratico” quasi
originario. In particolare la presenza di un forte partito comunista costituì
“un vincolo forte per la politica italiana”, condizionando fortemente
anche l’equilibrio complessivo del sistema costituzionale. Esso faceva perno,
infatti, sulla centralità del parlamento e su di una correlativa debolezza
dell’esecutivo.

Questi fattori, utili a
stabilizzare la democrazia italiana in quella stagione, si sono rivelati di
notevole impaccio nella fase di transizione che si è aperta nei primi anni
novanta del secolo scorso. Di questa fase, spesso confusa, Grilli dà
un’interpretazione linearmente coerente. Per esempio, fra le ragioni del crollo
della prima repubblica, l’autore non sopravvaluta l’operazione mani pulite, ma
indica come primo movente la fine della guerra fredda, che toglie legittimità
al sistema. In secondo luogo, pur valutando, come vedremo, il processo ancora
incompiuto Grilli ritiene giusto parlare di una seconda repubblica perché sono
mutate radicalmente le condizioni della contesa politica. Tanto è vero che si è
avuta un’alternanza di governo che il nostro paese non aveva mai conosciuto,
non solo nella fase repubblicana, ma neanche nella precedente storia dello
stato unitario.

Per capire le ragioni della difficoltà italiana a
chiudere la seconda transizione, Grilli ricorre alla comparazione con i due
casi studio più simili. Quello della Francia, dove una transizione breve
(1958-1962) traghetta il paese dalla quarta alla quinta repubblica; e quello
del Belgio, dove occorrono, invece, oltre trent’anni (1962-1993) per passare da
un sistema accentrato a uno federale. Rispetto a questi esempi, la transizione
italiana si presenta con caratteri in parte contraddittori. In sostanza esiste una
discrasia fra un consolidato orientamento degli elettori e una non piena
ricettività del sistema politico. L’elettorato è saldamente orientato sull’asse
destra/sinistra. Basti pensare che alle ultime elezioni i due poli hanno
raccolto la totalità dei voti, mentre nel 1994 c’era ancora un 20% di voti
centristi. Il fatto è che la democrazia dell’alternanza è vissuta come una
importante conquista democratica. D’altronde, quello che è accaduto nel nostro
paese negli ultimi quindici anni, non configura una patologica anomalia
italiana, ma corrisponde anche a quanto avviene in molte democrazie
contemporanee, che hanno visto la competizione politica “attestarsi
progressivamente su due poli partitici a prescindere dal sistema
elettorale” (Spagna, Austria, Polonia, Norvegia Olanda, tanto per fare
alcuni esempi). A questa fisiologica scomparsa del centro non corrisponde però
un adeguamento del sistema partitico che resta “frammentato e di
pluralismo polarizzato”.

Questo aspetto costituisce un pericoloso “elemento
di patologia democratica, destinato, se si accentuano certi caratteri ad
accrescere seriamente le difficoltà del sistema democratico”. Tale
frammentazione ha effetti negativi sulla stabilità politica per cui, nei
tredici anni che ci separano dal 1994, abbiamo avuto governi elettorali,
determinati dal voto popolare, e governi parlamentari, che hanno un carattere
partitocratico. La via di uscita è indica con nettezza: una riforma
costituzionale che formalizzi la nuova forma di governo e superi il
bicameralismo perfetto. In conclusione, il libro di Grilli, pensato con
categorie rigorose ma scritto con uno stile piano e scevro di tecnicismi, può
costituire un utile breviario per il lettore comune che voglia orientarsi nella
vita politica odierna al di là delle polemiche contingenti.