
L’Italia ferma al palo. Battuta da Messico, Grecia e Slovacchia

09 Aprile 2008
La disfatta italiana è compiuta.
Non bastano i quotidiani allarmi che giungono dai centri studi e dal Fondo
Monetario Internazionale, anche l’Ocse traccia un quadro impietoso della
situazione economica del nostro paese.
per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico il Factbook 2008, il rapporto sullo
stato della produttività mondiale ed europea. Quello che emerge è uno scenario
che non ha precedenti per la storia italiana degli ultimi vent’anni.
Gli allarmi
dell’istituto parigino non devono passare inosservati. Il Pil per ora lavorata
è cresciuto, in Italia, solo dello 0,5% negli ultimi 5 anni, con un ribasso
notevole dal 2006. I paesi membri del G7 sono invece cresciuti dell’1,3% e
quelli Ue (i maggiori 15) dell’1,7%.
Ancora, l’Italia viene battuta anche dal Messico (+0,6%), dalla Grecia
(+3,7%) e dalla Slovacchia (+5,2). Registrano, in Europa, forti crescite anche
nazioni come la Repubblica Ceca, l’Ungheria e tutta l’area del Baltico. Ma non
v’è solo la voce della produttività nel report dell’Ocse. Anche salari e costo
del lavoro sono un’importante cartina tornasole dello stato economico attuale
che ci viene riportata. Proprio quest’ultima voce è cresciuta in Italia del
2,5%, contro la media dello 0,5% del resto d’Europa. E per quanto riguarda il
Pil pro capite, non siamo messi affatto bene, dato che occupiamo la 20esima
posizione nel ranking Ue, dietro anche alla Spagna. Ma non va nemmeno meglio
sotto il profilo degli investimenti di capitali esterni al nostro paese. In
questa speciale classifica, il divario fra noi ed il resto del mondo è ancora
più ampio. Nel 2005 abbiamo ricevuto circa 224 miliardi di dollari provenienti
dall’estero, contro gli oltre 650 miliardi investiti in Germania, un paese con
il quale abbiamo la consuetudine di paragonarci.
Proprio Enrico Giovannini, dipartimento Statistiche
dell’Ocse, rilancia su questo fattore “Ciò che preoccupa di più sono i dati
relativi ai flussi di investimenti stranieri (Fdi) diretti in Italia”. Come dargli
torto? Si pensi all’Irap, l’imposta regionale sulle attività produttive,
evidente duplicato dell’Iva, imposta sul valore aggiunto. L’Irap va a colpire
il valore della produzione netto delle imprese, rallentandone la stessa
produttività per unità e limitando l’utilizzo di economie di scala. Allo stesso
modo, il costo del lavoro grava sugli imprenditori per oltre il 45% dei ricavi.
Nonostante le promesse elettorali il taglio del cuneo contributivo sul costo
del lavoro è stato risibile. Ma senza un settore industriale snello e capace di
alimentare i vantaggi competitivi che ci sono intrinsechi (qualità,
innovazione), non si può pensare di crescere al pari degli altri paesi. E si
corre il rischio di non essere nemmeno appetibili per le imprese straniere che
vogliono delocalizzare la loro produzione. In altre parole, le multinazionali
non ci filano nemmeno di striscio, preferendo lidi molto più dinamici e meno
onerosi sotto il profilo tributario. E non si può nemmeno usare la scusa tutta
italiana che non va male solo da noi, dato che Francia e Germania hanno
ricevuto il triplo dei capitali stranieri rispetto a quelli investiti nel
nostro paese.
La colpa di chi è? Sicuramente di un fisco oppressivo che
colpisce indistintamente sia chi apporta i capitali (imprenditori) sia chi
vende la propria manodopera (famiglie) secondo il più classico dei modelli
economici.
Ma anche la scarsa lungimiranza delle imprese italiane nel capire i
meccanismi di mercato in mondo sempre più globalizzato. Infine, impossibile non
citare uno dei mali maggiori che affligge l’Italia, la classe politica,
incapace di guardare al territorio ed al tessuto connettivo industriale,
composto dalle PMI, con la dovuta attenzione.
Le lacune che ci hanno portato a
questo triste risultato sono sotto gli occhi di tutti, ma sembra che non sia
ancora state contemplate nel fumoso programma del PD.
produttività così pare. Questo è il
pesante lascito di un governo, quello di Romano Prodi, che in soli due anni ha
saputo far perdere la ricchezza dei propri cittadini e diminuire la
competitività internazionale delle proprie imprese.