L’Italia ha bisogno del nucleare ma deve sconfiggere l’effetto “Chernobyl”

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L’Italia ha bisogno del nucleare ma deve sconfiggere l’effetto “Chernobyl”

17 Settembre 2007

Si
avvicina l’inverno e come ogni anno il nucleare torna prepotentemente
nell’agenda e nei discorsi di molti esponenti politici. In una lettera
pubblicata sul Corriere della sera, è lo stesso leader
Udc Pier Ferdinando Casini, a ribadire che riconsiderare l’opportunità di
rilanciare anche da noi il nucleare non e’ una provocazione culturale ma
piuttosto una seria opzione di politica industriale ed energetica del Paese.

Ma
che per l’Italia la reintroduzione del nucleare è una scelta obbligata da
diversi punti di vista, è ormai chiaro a tutti. Il nucleare è indispensabile se
vogliamo ridurre la nostra dipendenza da risorse energetiche quali petrolio e
gas e se di conseguenza vogliamo sottrarci al potere di ricatto che i paesi
produttori esercitano in tutti i campi nei nostri confronti. Inoltre, ci
troviamo di fronte a un paradosso: quello d’importare energia elettrica
generata da reattori nucleari che si trovano alle porte di casa nostra, in
paesi come Francia e Slovenia. Il 15-18% dell’energia elettrica che importiamo
dalla Francia deriva da combustibile nucleare. A questo punto, in un’ottica di
autonomia energetica, non sarebbe più ragionevole che anche l’Italia si dotasse
di reattori nucleari? C’è poi il problema dei costi. La richiesta di energia è
in costante crescita e nel lungo periodo la bolletta energetica si farà sempre
più insostenibile per i consumatori, dai cittadini alle imprese, che devono
pagarla. La reintroduzione del nucleare avrebbe l’effetto di alleggerirne il
peso a vantaggio di tutti. Il costo dell’energia elettrica generata da reattori
nucleari è di gran lunga inferiore a quella prodotta da altre fonti. Basti
pensare che il costo dell’energia elettrica prodotta dai reattori nucleari
francesi è più basso dell’energia elettrica prodotta in Italia da altre fonti.
In particolare, il ricorso alle fonti rinnovabili comporta costi elevatissimi,
per di più ingiustificati in rapporto alla loro reale capacità di generare
energia.

Se è
così, cosa impedisce all’Italia di reintrodurre il nucleare? Tecnicamente
parlando, non esistono elementi ostativi. In ogni momento è possibile comprare
un reattore e predisporne l’installazione sul nostro territorio. Il problema
semmai è di natura culturale. In Italia, certa propaganda, a partire da una
percezione erronea ed esasperata del disastro di Chernobyl, ha diffuso
nell’opinione pubblica la fobia della tecnologia, con il risultato che oggi la
semplice parola nucleare viene associata a quanto di peggio possa esistere.

In un
recente rapporto stilato dal “Chernobyl Forum” (che comprende agenzie dell’ Onu
ed in particolare l’ Agenzia internazionale per l’energia atomica e l’Organizzazione
Mondiale della Sanità) emerge come dopo 19 anni dalla tragedia solo 56 morti si
potrebbero attribuire direttamente a quelle radiazioni. Il documento continua
dicendo che la tragedia di Chernobyl sarebbe la tragedia più gonfiata della
storia e che le cifre di centinaia di soccorritori contaminati, migliaia di
bambini malformati e milioni di persone a rischio sarebbero tutte ingigantite.
La realtà sarebbe un’altra: le cifre sarebbero state falsificate per attirare
compassione e finanziamenti. A leggere questo rapporto si rimane quantomeno
sconcertati e spiazzati.

Gli
effetti di quell’incidente sono stati esaminati – a 10, 15 e 20 anni di
distanza – anche dall’Unscear (Comitato scientifico dell’Onu sugli effetti
delle radiazioni atomiche) i cui rapporti rappresentano il lavoro di oltre 100
scienziati appartenenti a 20 nazioni diverse. Ogni rapporto conferma i
risultati del precedente: il numero totale di decessi attribuibili
all’incidente di Chernobyl non è stato le decine o centinaia di migliaia di cui
si è favoleggiato, ma è inferiore a 60.

Più
precisamente, 3 lavoratori morirono sotto le macerie dell’esplosione, e dei 237
tra lavoratori nella centrale e soccorritori cui fu diagnosticata la sindrome
acuta da radiazioni (poi confermata a 134 di essi), 28 morirono entro pochi
mesi. Dei rimanenti, ulteriori 19 sono morti tra il 1987 e il 2004 «per varie cause»
(uno di costoro, ad esempio, morì in incidente d’auto). Gli altri sono ancora
vivi.

Meno di 60, appunto, e non le
migliaia che molti organi d’informazione (si fa per dire) e responsabili
politici hanno asserito (e continuano indisturbati ad asserire). Costoro,
piuttosto, sono i veri responsabili del più grave danno sanitario riscontrato
dallo studio dell’Unscear secondo cui le conseguenze psicologiche subite dagli
abitanti le zone vicine all’incidente sono state simili a quelle dei
sopravvissuti alle bombe atomiche. La cattiva informazione e la propaganda
terroristica «etichettarono quelle popolazioni come
“vittime di Chernobyl” attribuendo loro il ruolo di invalidi, e incoraggiandoli
a percepire sé stessi come disperati, deboli e senza prospettiva di alcun
futuro; ed è noto che se una situazione è percepita come reale, essa diventa
reale nelle sue conseguenze.

Naturalmente,
tutti credono che sia la più pericolosa, perché così è stato fatto credere da
chi ha avuto l’interesse, tutto politico, a demonizzarla. Altri diranno che i
rapporti delle Nazioni Unite non fanno altro che difendere gli interessi delle
grosse potenze occidentali nucleariste. A questo punto però bisognerebbe
mettersi d’accordo circa la corretta interpretazione e legittimazione dei rapporti
ONU. Non si capisce, infatti, perché se l’ONU denuncia i cambiamenti climatici
e la fame nel mondo diventa la fonte più autorevole esistente e quando analizza
gli effetti del nucleare e le sue prospettive diviene strumento guidato dagli
interessi del capitalismo mondiale. O è vero tutto o tutto è in discussione.

Ma volendo
rimanere alla fobia del nucleare, è facile dimostrare come questa non trovi
giustificazione nella pericolosità che questa fonte di energia porta con sé. Il
nucleare, infatti, non è la sola fonte di incidenti gravi: tutti ricordano Chernobyl,
ma anche altre fonti hanno fatto (e tuttora fanno) molte vittime (dirette e
indirette). Per il carbone ci sono 6-7mila morti l’anno (soprattutto derivanti
dal lavoro in miniera). Il gas naturale: 1984, Messico a San Juanito esplosero
diversi serbatoi di gas uccidendo 550 persone e ferendone 7mila. 300 mila
persone furono evacuate. E milioni di metri cubi di gas e di chissà quali altri
materiali pesanti (metalli, plastiche, vernici, solventi…) sono stati immessi
nell’atmosfera. Il petrolio: oltre le innumerevoli petroliere che perdono
petrolio e inquinano il mare esistono anche innumerevoli disastri dimenticati:
1998, Warri Nigeria la perdita di un oleodotto provocò la morte di più di 500
persone; o Seul 1994, dove in seguito all’esplosione di diversi serbatoi di
carburante morirono altre 500 persone; o Durunkha Egitto dove in seguito
all’esplosione di un pozzo di petrolio morirono più di 600 persone… e ce ne
sono molti altri. Idroelettrico: 1963 Vajont, con quasi 2000 morti. Ma in
nessuno di questi disastri ci si è però curato di controllare le sostanze
cancerogene immesse nell’atmosfera nè di calcolare le possibili vittime a lungo
termine.

Quella
per la reintroduzione del nucleare è dunque una battaglia culturale. Esattamente.
È necessario creare un clima sociale di consapevolezza e accettazione che renda
possibile l’installazione d’impianti per la produzione di energia nucleare in
territorio italiano. Ed è cosa tutt’altro che facile. Le resistenze sono molte.
Va poi considerato che nelle società industriali avanzate la popolazione è
solitamente refrattaria alle decisioni di carattere impositivo. Costruire una
centrale nucleare senza il consenso della cittadinanza è impensabile, perciò è
necessaria un’opera di re-informazione dell’opinione pubblica in modo da
renderla consapevole dei suoi stessi bisogni energetici e da creare quel clima
sociale di consapevolezza e accettazione che è patrimonio comune di tutti i
paesi industrializzati tranne il nostro.