L’Italia in Iran tra affari (molti) e politica (poca)

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L’Italia in Iran tra affari (molti) e politica (poca)

L’Italia in Iran tra affari (molti) e politica (poca)

05 Febbraio 2007

Negli ultimi anni l’Iran è entrato nell’occhio del ciclone della politica internazionale per le sue mire atomiche, nonché per il suo dinamismo nella regione mediorientale che lo ha portato a sostenere più o meno apertamente gli Hezbollah libanesi e gli estremisti sciiti iracheni. Stati Uniti e Inghilterra da tempo premono perché il Consiglio di Sicurezza dell’Onu adotti provvedimenti contro Teheran, a partire da sanzioni economiche sempre più stringenti, ma in questo modo toccano un argomento molto delicato sia per la tipologia delle esportazioni iraniane sia per l’importanza dei suoi partner commerciali.

Innanzitutto bisogna considerare che la principale voce dell’export iraniano è costituita dal petrolio: l’Iran è il terzo produttore mondiale di greggio con circa 8 milioni di barili al giorno, condizione che gli offre uno strumento di pressione politica da non sottovalutare. In un mercato delle materie prime stressato da un costante eccesso di domanda da parte di Cina e India, e innervosito negli ultimi anni dal clima di incertezza a livello internazionale, le minacce di riduzione della produzione da parte di questo o quel grande esportatore hanno un effetto enorme. Oggi l’Iran è particolarmente attivo all’interno dell’Opec nel premere affinché la produzione sia razionata per mantenere i prezzi del greggio sui 50-55 dollari al barile, e fermare la discesa in atto negli ultimi mesi.

L’economia iraniana è caratterizzata da una forte presenza statale nella gestione del settore petrolifero e delle grandi banche e imprese. Già la Costituzione rivoluzionaria del 1979 attribuiva allo Stato competenza esclusiva su “industria di larga scala, commercio estero, minerali, banche, assicurazione, generazione di energia (…) telecomunicazioni, (…), infrastrutture civili e industriali”. Si afferma chiaramente che tutti questi settori, elencati dall’art. 44, “saranno di proprietà pubblica e amministrati dallo Stato”. Considerando che tutt’oggi lo stato controlla l’80% delle attività produttive iraniane, appare evidente che il “sistema misto” proclamato dalla Costituzione khomeinista sia un paravento dietro cui si nasconde un’economia pubblica, nella quale l’iniziativa privata interna e ancor di più quella internazionale sono estremamente vincolate dalla discrezionalità politica.

D’altro canto l’Iran rappresenta un mercato molto appetibile per le industrie europee, per almeno due ragioni strutturali. In primo luogo per la sua situazione demografica: il 61% della popolazione è compresa nella fascia di età lavorativa 14-61 anni e dunque può permettersi un discreto consumo minimo, un altro 33% ha un’età inferiore ai 14 anni, e solo il 6% della popolazione rientra nella fascia meno propensa al consumo, gli ultra 65enni. In secondo luogo sia il forte settore agricolo, base sia dell’industria agro-alimentare sia della lavorazione della lana per la rinomata produzione di tappeti, sia soprattutto il settore petrolchimico necessitano di macchinari, componenti, prodotti semilavorati, prodotti chimici che l’industria iraniana non è in grado di produrre in maniera efficiente e che devono quindi essere importati. Come sono di produzione straniera anche una serie di prodotti agricoli non coltivabili nel territorio iraniano. Ecco quindi che dietro allo storico partner tedesco, che fornisce l’11,2% delle importazioni, e ad una Cina giunta recentemente al 6,4%, c’è Italia con il suo 6%, seguita dagli Emirati Arabi Uniti col 5,6% e subito dietro dalla Francia di Chirac. In questa classifica pesa l’assenza decennale per motivi politici delle imprese anglosassoni, così come influisce il recente riavvicinamento geopolitico tra Pechino e Teheran. La classifica dei mercati verso cui l’Iran esporta è quasi speculare a quella dei paesi da cui importa: l’Italia acquista il 17,1% dell’export iraniano e la  Germania il  9,1%, ma entrambi sono ampiamente preceduti dal Giappone con il suo 38,7%.

In questo contesto, la storia recente dei rapporti economici tra il nostro Paese e l’Iran è proseguita con reciproco profitto, nonostante i cambiamenti nei governi delle due nazioni. Nel 1999 è stata istituita a Roma la Camera di Commercio Italo-Iraniana, con l’attivazione di importanti strumenti di sostegno al commercio bilaterale. Due anni dopo la Banca iraniana Bank Markazi e l’Arab Italian Bank, che come dice il nome stesso è una joint-venture arabo-italiana, hanno siglato un accordo per il finanziamento delle esportazioni italiane in Iran. Da allora l’interscambio tra Iran ed Italia è cresciuto del 9% nel triennio 2001-2003, grazie soprattutto all’incremento dell’export Made in Italy. Nel 2003 la bilancia commerciale segnava esportazioni italiane verso Teheran per 1,95 miliardi di euro, e importazioni dall’Iran per 1,89 miliardi dei quali ben 1,71 consistenti in petrolio greggio e gas naturale. In linea con la situazione prima descritta, l’export nazionale verso l’Iran nel 2003 era costituito per il 55% da prodotti dell’industria meccanica, in particolare macchine per impieghi speciali e macchinari per l’impiego e produzione di energia meccanica. Nel biennio successivo il commercio bilaterale è continuato a crescere con percentuali a doppia cifra, confermando il proficuo rapporto tra strutture economiche diverse e complementari tra loro.

Passando da asettici numeri ad esempi concreti di rapporti industriali, si può citare l’Eni che in Iran continua a crescere nella ricerca di petrolio e gas, e il gruppo Falck che con la sua Sondel, in joint venture con un’azienda pubblica iraniana, sta lavorando alla realizzazione di una grande centrale elettrica sul Mar Caspio. E prima ancora Ansaldo, Montedison e altre grandi industrie italiane hanno investito nel paese degli ayatollah si dagli anni ’80-‘90. Nel 2001 ci fu anche un forte interessamento della Telecom di Colannino al nascente mercato iraniano della telefonia, con tanto di incontro tra lo stesso Colannino e il ministro delle Telecomunicazioni del governo di Khatami.

Anche a livello creditizio i rapporti bilaterali sono significativi. Mediobanca e l’allora Banca Intesa, ora confluita con San Paolo nel grande polo bancario di Bazoli, un anno fa vantavano crediti rispettivamente per 2 e 1,5 miliardi di dollari nei confronti delle principali banche iraniane, ovviamente tutte pubbliche. In questo settore un attore discreto quanto fondamentale è la citata Arab Italian Bank, che registra una capitalizzazione relativamente piccola ma ingenti passaggi di denaro in quanto opera come banca d’affari, e come supporter del commercio tra l’Italia e il Medio Oriente. A fianco dei soci libici ed egiziani, fino a pochi anni fa sedevano nel CdA della joint-venture soggetti di primo piano del capitalismo italiano come Capitalia con 10% delle azioni, Eni col suo 5,4%, il Monte dei Paschi di Siena con il 3,7%, e persino la Telecom con l’1,8 %.

Dal quadro dei rapporti economici risulta dunque evidente come sia interesse nazionale dell’Italia avere voce in capitolo nel dossier iraniano, cosa ora maggiormente possibile vista la presenza di turno del nostro paese all’interno del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Meno facile è, e sarà , distinguere tra l’interesse nazionale e gli interessi dei poteri forti coinvolti nel commercio bilaterale, e pesare nel modo giusto entrambi con le ragioni della sicurezza e della stabilità internazionale.