L’Italia, la Libia e il Mediterraneo. Una strategia “soft”
31 Marzo 2011
Non credete a quelli che dicono che l’Italia avrà tutto da perdere dalla guerra in Libia, il petrolio, il bussiness e la sicurezza. ENI è in Libia dalla fine degli anni Cinquanta e non è la prima volta che deve fare i conti con gravi crisi internazionali né è così ingenua da non sapere come e dove diversificare. Non fidatevi delle cassandre dell’esodo biblico, dei trecentomila disperati che dovevano invadere le nostre coste mentre per adesso – senza nulla togliere a Lampedusa – siamo al di sotto di quei 40.000 migranti che nel 2008 cercarono di entrare in Italia dalla Libia, prima del tanto vituperato "Accordo di amicizia" stretto con il Rais. Non prestate neppure il fianco a chi si mette troppo facilmente in testa l’elmetto coloniale e vuol rovesciare Gheddafi, visto che non è chiaro chi avremo di fronte dopo la caduta del Colonnello e considerando il fatto che quelli che hanno iniziato questa guerra non sanno bene se e come finirla.
In realtà, la vicinanza geografica con Tripoli gioca a nostro favore, come pure quella lunga storia che da Cartagine porta alla Jamaria, passando per la "Grande proletaria". L’Italia ha sempre avuto, e probabilmente continuerà ad avere, una certa influenza negli affari del nostro vicino, così come in tutto il Nordafrica e nell’antico mare nostrum. La fluidità della situazione sul terreno e l’incertezza sull’esito del conflitto ovviamente complicano le cose e mettono a repentaglio interessi e rendite consolidate. Se per esempio la Libia dovesse disintegrasi in due o più entità territoriali rischiamo di perdere quello che avevamo guadagnato con il Rais e quello che avremmo potuto ottenere appoggiando i ribelli. Ma evocare lo scenario peggiore non significa, come invece è stato detto, che il governo italiano sulla Libia è stato ondivago e vile. E’ un difficile equilibrio quello che dobbiamo trovare di fronte a uno scenario repentino che ha trasformato l’alleato (riabilitato) di ieri nel nemico (non dichiarato) di oggi, ed è un discorso che non vale solo per la Libia ma per tutto il Mediterraneo, il Nordafrica e il Medio Oriente, scosso dalle rivoluzioni più o meno "democratiche".
Da qui i nostri caccia che si alzano in volo "senza sparare un colpo". Da qui la compassione mostrata dal Cav. verso Gheddafi, il dittatore che non volevamo "disturbare" (Berlusconi, 19 marzo) per poi onorare la Risoluzione dell’Onu contro di lui, congelando anche il trattato di amicizia in attesa di tempi migliori, quando sapremo con chi ripristinarlo. Da qui l’altalena di dichiarazioni per cui un giorno (il 21 marzo scorso) la Farnesina mette in guardia "dall’emirato islamico di Bengasi" e l’altro annuncia una visita della delegazione del Consiglio Nazionale di Transizione a Roma (lunedì prossimo). Da qui la girandola di cifre sulle vittime civili del Rais, dai mille corpi gettati nelle presunte fosse comuni (Frattini, 23 marzo) alle "poche" centinaia di morti registrati nello stesso periodo da HRW. Contraddizioni, si dirà, ma la storia e la politica di un Paese sono sempre qualcosa di contraddittorio ed è proprio compito di chi la fa, la storia, di trovare un equilibrio sopra la follia. E’ tutta qui, secondo la rivista di intelligence Stratfor, la strategia seguita dal nostro Paese verso un altro stato che era diventato un importante partner economico e commerciale, oltre che essere il (sedicente) guardiano dei nostri confini.
Seguire i "Volenterosi" ma usare la NATO in funzione anti-anglofrancese, come ai tempi della Crisi di Suez. Far alzare i caccia dell’Alleanza dalle nostre basi e candidare Napoli a sede di "Comando Unificato", ma nello stesso tempo garantire una via di uscita a Gheddafi, un esilio disonorevole che non lo metta al riparo da una giusta condanna del tribunale penale internazionale. Se vogliamo tenerci i pozzi petroliferi al largo di Tripoli e nella Libia occidentale dobbiamo procedere su questa strada, tortuosa. Siamo il primo paese importatore di petrolio dallo stato africano (29%) e attualmente la Libia rappresenta per ENI il 15 per cento del totale dei suoi "output" di idrocarburi a livello globale, 108.000 barili al giorno, 8,1 miliardi di metri cubi di gas nel 2009, un gasdotto (il Greenstream) costato una fortuna al cane a sei zampe. Se non vogliamo finire del tutto schiavi di Mosca bisogna difendere i nostri interessi ed è auspicabile che alla Farnesina seguano minuto per minuto l’evoluzione della guerra, visto che di armi e sistemi di controllo e di sicurezza ai vincitori potremmo venderne tante quante ne abbiamo passate a Gheddafi: 900 milioni di dollari tra Finmeccanica e Intermarine Spa (senza contare quel miliardo di dollari che era in ballo prima che scoppiasse il finimondo). Così come sarebbe stupido perdere il valore degli investimenti del fondo sovrano libico in Italia, da ENI a UniCredit alla stessa Finmeccanica.
"L’Italia ha semplicemente troppi interessi in gioco in Libia per scegliere con decisione da che parte stare", scrive Stratfor, e dovremo usare tutte le accortezze più machiavelliche per far quadrare il cerchio e la botte, la nostra fedeltà agli alleati e il perseguire un legittimo interesse nazionale. In un momento in cui gli Usa non vanno oltre la guerra dal cielo (finora Obama ha speso 600 milioni di dollari per una semplice "deterrenza", Gheddafi arretra e avanza a piacimento), mentre francesi e inglesi dopo essere partiti all’arrembaggio non dicono se avranno il coraggio di andare fino in fondo mandando le loro truppe d’elite a rovesciare il rais (in questo caso speriamo che arrivino in tempo anche le nostre), l’Italia riafferma con decisione la sua fiducia nella NATO, si fa portatore delle ambasce astensionistiche di Bonn, tira dentro il conflitto la Turchia, l’unica a poter vestire decentemente la maschera dell’intervento umanitario. Chiediamo un cessate il fuoco e quei requisiti democratici fondamentali per legittimare i ribelli (elezioni, costituzione, società secolare), lasciando un corridoio strettissimo da cui Gheddafi, se solo non fosse un cane matto, potrebbe ancora uscire illeso.