L’Italia non avrà futuro se continua a viziare i suoi giovani
04 Luglio 2011
Ancora pochi giorni e gli esami di stato finiranno, l’incubo dell’interrogazione finale si scioglierà nel confronto con la Commissione e finalmente tutto sarà finito; come al solito si avrà oltre il 93 per cento di promossi e tutto finirà a tarallucci e vino. Ecco che un altro scoglio importante della vita degli adolescenti sarà superato, la famiglia potrà andare al mare finalmente serena: cominciano le vacanze, quelle vere che dureranno a lungo.
E poi? Cosa succederà? Da settembre leggeremo nuovamente sui giornali che l’economia non va, o su quelli più ottimisti che si campicchia, ma che il paese è nelle retrovie tra quelli del G8 per sviluppo economico, che le industrie sono in affanno un po’ dappertutto salvo, anche qui, poche isole felici e che si deve fare di più e meglio, produrre di più, in modo più efficiente e competitivo ed a costi minori se si vuole mantenere la competizione che è globale. Sempre a settembre ripartiranno le diatribe sulla scuola, sulla riduzione del numero di docenti, sulle graduatorie dei supplenti, sulla riduzione del numero delle classi e sull’aumento del numero di alunni per classe a causa delle restrizioni economiche. Sentiremo voci pro (poche e sempre meno), contro (molte di più e in crescendo) poi tutto si placherà sino al periodo degli scrutini quando la solfa ricomincerà.
Non c’è convegno, dibattito sindacale o articolo di fondo di giornali impegnati dove non disquisisca sull’importanza dello sviluppo della competitività del nostro paese ormai da anni e sempre senza alcun costrutto o azione reale che vada in questa direzione. Abbiamo sentito qualcuno chiedersi invece se la preparazione che stiamo dando agli studenti è valida? Se è adeguata alle necessità del mondo di oggi, globalizzato e fortemente tecnologico? Nello sciabordio delle frasi fatte e dei discorsi inutili, peraltro cadenzati nel tempo e dimenticati adeguatamente non appena i media mostrano interesse in altre direzioni, poche voci stanno ponendo il vero problema: cosa insegniamo a questi ragazzi, in che modo e come servirà loro il bagaglio culturale che dovrebbero avere acquisito?
Viceversa, si assiste alla corsa al voto, se possibile, al voto alto indipendentemente da quanto si è appreso. Poi si vedrà, soprattutto se si deve accedere all’Università in modo da poter rimanere parcheggiati almeno altri 3 o 4 anni prima di affrontare veramente la vita e, spesso, la disoccupazione o la sottooccupazione ma con un bel diploma da dottore che non guasta mai quando parcheggiamo l’auto o andiamo a fare la spesa. E invece bisognerebbe avere il coraggio di invertire pesantemente la rotta; i giornali economici riportano in questi giorni che le industrie del nord sono alla ricerca e non riescono a trovare circa settantamila addetti, mica poche centinaia, un numero di persone pari ad una cittadina media di provincia: e non li trovano mentre l’ISTAT riporta un tasso di non occupazione (così chiamata pudicamente) tra i 15 ed i 25 anni di oltre il 20 percento.
Questi dati sconfortanti rappresentano le due facce della stessa medaglia e, soprattutto, mostrano il volto di un paese addormentato, che non è in grado di competere e soffrire nemmeno nelle sue leve giovanili, e che preferisce la pappa fatta sotto casa che l’impegno fuori dal nido. Nei paesi civili, quelli veramente tali, le percentuali di promossi alla maturità superano raramente il 60, al massimo il 65 per cento: vuol dire che i loro giovani sono più idioti e meno preparati dei nostri? Purtroppo i risultati economici dei vari paesi, il loro livello di civiltà, di industrializzazione, di peso internazionale mostrano esattamente il contrario. Danno pesantemente la misura di come una realtà permissiva nella quale la forma prevale sulla sostanza è perdente a tutti i livelli e produce una generazione incapace, in genere, di affermarsi; è il conflitto tra la realtà seria e dura del fare con quella del “mi dia un aiutino” che dai quiz televisivi ha ormai pervaso tutta la società.
Bisognerebbe avere il coraggio di cambiare molte cose, ripristinare il valore e la serietà degli studi, differenziandoli veramente in funzione delle potenzialità dei singoli studenti e dei loro interessi, permettendo ad ognuno di seguire il cammino preferito ma, al contempo, attivando verifiche precise e regolari che prevedano, se non positive, l’indirizzamento verso linee diverse da quelle iniziate in modo che ognuno sia al posto giusto ed adatto alle proprie competenze. Servirebbe soprattutto aver il coraggio di annullare il valore legale del titolo di studio per cui ognuno è valutato per quello che è e che sa realmente fare e non per il pezzo di carta che possiede; questo soprattutto perché il pezzo di carta troppo spesso e figlio del “mi dia un aiutino”. Oggi siamo diventati il paese dei “todos caballeros” dove anche un callista, mestiere dignitosissimo e di grande utilità sociale, diventa dottore triennale il cui valore aggiunto rispetto a quello di essere solamente il “callista tal dei tali” mi resta ancora decisamente oscuro. Se ci riuscissimo diventeremmo, anche se ci vorrebbe del tempo, un paese avanzato, serio, competitivo e in grado di assicurare un futuro ai nostri figli. Sto usando il condizionale e temo che resterà tale, anzi resterà un’ipotetica del terzo tipo: Viva l’Italia.