L’Italia non ha bisogno di una patrimoniale ma della riforma del fisco

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L’Italia non ha bisogno di una patrimoniale ma della riforma del fisco

03 Febbraio 2011

Vista dagli occhi dei più giovani è certamente benevola l’idea di una tassa patrimoniale finalizzata a ridurre il debito pubblico. L’idea è stata avanzata da Giuliano Amato e poi elaborata in versione “nuova Invim” da Pellegrino Capaldo. Piace(rebbe) ai più giovani per lo scopo per cui è invocata: ridurre il debito pubblico. Ossia ridurre quel fardello che la generazione dei meno giovani lascia in eredità alla generazione dei più giovani, in virtù del patto intergenerazionale per cui il futuro (il domani) subentra nel passato (il presente), entrando in possesso di ogni lascito senza riserva alcuna, incluso soprattutto (e appunto) il debito del bilancio statale. Infatti, sarebbe assurdo, per i giovani, non compiacersi di una proposta che offre in dote un bilancio statale con debiti all’80%, anziché al 120%. E poi, si tratterebbe quasi di una giusta “punizione” inferta ai meno giovani per aver goduto di uno Stato più generoso e a cui dare in parte il merito della loro fortuna, cioè di quel patrimonio da sottoporre a salasso.

La proposta di una patrimoniale per ridurre il debito pubblico, come accennato, è stata avanzata da Giuliano Amato. Un vecchio cavallo di battaglia, verrebbe da dire, per l’ex presidente del Consiglio che già nel 1992 ideò e mise in pratica un prelievo straordinario sui risparmi dei cittadini (i conti correnti e i depositi). L’idea è stata poi rielaborata da Pellegrino Capaldo in un progetto finalizzato «ad una sorta di ‘privatizzazione’ del debito» pubblico. «Se è vero che il debito pubblico è, in ultima istanza, un debito di noi cittadini», ha detto l’Ordinario di Economia, «tanto vale accollarcelo, almeno in parte direttamente, alleggerendo in corrispondenza lo Stato». Su queste due posizioni si è sviluppato il dibattito fra chi si è detto pro e chi contro all’istituzione di una patrimoniale. Favorevoli i soliti Walter Veltroni, l’ex presidente del Consiglio Romano Prodi («non nutro alcuna contrarietà intellettuale rispetto al varo di una patrimoniale»), Lamberto Dini («Credo che sarebbe tollerabile e anche accettabile. E accettata dai cittadini») e Susanna Camusso (Cgil). Cioè l’intero establishment della sinistra italiana, fatta eccezione del segretario del Pd, Pierluigi Bersani, che ancora l’altra sera, a Ballarò, ha più volte rimarcato che la “voce ufficiale” (del Pd) è contraria alla patrimoniale; ma così evidenziando un’ulteriore frattura di idee all’interno del principale partito di opposizione.

Ma qual è l’idea di Amato e quale quella di Capaldo?

Partiamo dai numeri (le cifre, dell’Istat, sono comunque provvisorie). A fine anno 2010 il bilancio statale chiude con un debito di circa 1.867 miliardi di euro, che significa il 118% del Pil (di quanto, cioè, gli italiani hanno prodotto nello stesso anno). Il debito, ovviamente, non è dello “Stato” ma dei cittadini che ne fanno parte. Ogni italiano, allora, ha a suo carico una fetta di quel debito che è pari a circa 31.100 euro. Gli stessi cittadini italiani, secondo stime della Banca d’Italia (del 2008), hanno una ricchezza ben solida pari a circa 8.284 miliardi di euro, ovvero 138 mila euro pro capite, costituita da abitazioni e attività finanziarie (il patrimonio).

Da qui parte il ragionamento di Amato: poiché gli italiani hanno tutta questa ricchezza perché non fargli pagare subito almeno una parte del debito pubblico? Ed ecco la proposta: pagarne un terzo, così da far scendere il rapporto debito/Pil dall’attuale 118% a circa l’80%. Secondo Amato, per pagare un terzo del debito (cioè 622 miliardi di euro) bisognerebbe togliere ai cittadini un terzo della loro “partecipazione” al debito pubblico, ossia un terzo dei 31.100 euro e quindi all’incirca 10 mila euro pro capite.

Parzialmente diverso è il ragionamento di Pellegrino Capaldo. La sua idea guarda ad “un’imposta straordinaria sulle plusvalenze immobiliari”. Con questa imposta verrebbe tassato il valore corrente dell’immobile, ossia il valore di acquisto dell’immobile più la rivalutazione che ha avuta negli anni. L’imposta oscillerebbe tra il 5 e il 20 per cento e consentirebbe di trasferire dal bilancio statale al bilancio familiare (cioè dal pubblico al privato) una quota del 50% del debito pubblico, così da scendere dal 118 al 60 per cento circa. Altra differenza dell’idea di Capaldo rispetto a quella di Amato riguarda l’epoca di pagamento dell’imposta. Mentre per Amato andrebbe pagata tutta e subito, la proposta di Capaldo contempla tre alternative: pagamento immediato (scontato); pagamento rateale; pagamento rinviato a scadenza indeterminata. L’ultima opzione è quella più nuova e funziona come un’ipoteca sull’immobile: l’imposta non verrebbe pagata ma solamente “iscritta” sull’immobile per essere onorato al momento della vendita. Immaginate: oltre all’ipoteca del mutuo avremmo anche quella dello Stato.

Le due idee hanno in comune la finalità: ridurre il debito pubblico. E arriviamo al cuore del problema.

La riduzione del debito pubblico, al di là di vincoli di Maastricht (debito/Pil al 60%), non è una delle priorità del nostro Paese. Piuttosto che mirare ad abbattere il debito pubblico, la sfida di oggi è quella di rilanciare lo sviluppo. Sotto questo aspetto, dunque, l’introduzione di una nuova tassa e soprattutto nella forma dell’una tantum non ha alcun senso, contribuendo al contrario a ridurre i consumi (e quindi l’economia).

Quel che è vero delle due proposte, però, è che con una riduzione del debito pubblico si verrebbero a liberare risorse che oggi sono impiegate per il pagamento degli interessi sul debito pubblico, pari a circa 80 miliardi di euro. Niente male, se non altro per avere a disposizione risorse da impiegare nel rilancio di produzione e consumi. E allora il dunque: è possibile oggi immaginare l’introduzione di una patrimoniale una tantum come invocata da Amato e/o da Capaldo?

La risposta ci sembra dovere essere necessariamente negativa. Il motivo fondamentale che riguarda la finalità per cui è stata invocata, cioè per ridurre il debito pubblico. Sia chiaro, l’intento è buono soprattutto dal punto di vista delle future generazioni come si diceva all’inizio. Ma qui si insinua il rischio più pericoloso: chi dà la certezza che, una volta che è stato ridotto, il debito pubblico non venga fatto nuovamente lievitare? Quale garanzia è offerta che domani un nuovo governo non ricominci ad aumentare la spesa e, così, a favorire il ripristino del debito pubblico? Senza questa garanzia, appare ovvio, una patrimoniale una tantum si trasforma, piuttosto che in un’opportunità, in un boomerang per le future generazioni. Infatti, poiché quello che è oggi dei padri domani sarà dei figli, una patrimoniale oggi senza garanzia di una stabilità al livello di riduzione del debito pubblico avrebbe il doppio effetto negativo di ridurre il patrimonio dei padri (l’eredità “privata”) e di lasciare invariato il debito pubblico (l’eredità “pubblica”).  

Probabilmente, allora, è il carattere dell’“una tantum” che maggiormente spaventa la visione di una patrimoniale. Perché significa dissolvere in una battuta una montagna di soldi, con probabile quasi certezza che la riduzione del debito (pari alla patrimoniale) significherà nell’immediato giorno dopo la disponibilità di risorse per nuovi sperperi. E perché, dunque, avrebbe il risultato di aumentare le tasse nel breve e nel lungo periodo, il contrario di ciò che serve oggi: l’aumento dei consumi per far ripartire l’economia.

In conclusione, almeno nel dibattito attuale, la patrimoniale non va vista negativamente in sé per sé ma per lo scopo per cui è stata invocata. Cioè come una tantum per la riduzione del debito pubblico, che significa nuove tasse. E le tasse, oggi, vanno piuttosto ridotte. Ridotte perché a livelli troppo elevati e ridotte per incentivare i consumi. Meglio guardare altrove, allora; meglio guardare a una riforma del sistema fiscale. E in una riforma complessiva si potrà anche parlare di patrimoniale. Ma non per introdurre o produrre nuovi prelievi a carico dei contribuenti (come le proposte di Amato e Capaldo), quanto piuttosto per una diversa distribuzione del carico fiscale sui cittadini e sulle imprese. Ciò che consentirà di liberare risorse da destinare in consumi per il rilancio dell’economia. Si dovrà guardare, insomma, di più alle cose e meno alle persone, svincolando in parte il sistema di tassazione dal reddito (oggi infatti le tasse pesano di più su chi lavora e produce ricchezza) per deviarlo su patrimoni e consumi. In questo modo, si colpirà anche chi il reddito lo tiene nascosto e si accontenteranno i moderni Robin Hood punendo chi fino ad oggi si è avvantaggiato di uno Stato pantalone. Non è un’idea malvagia. Allora, ribadiamolo con forza: non c’è bisogno di nuove tasse, ma di una riforma fiscale.