L’Italia non lascerà l’Afghanistan ma vuole spiegazioni da Obama
09 Ottobre 2010
Altri quattro Alpini caduti in un’imboscata dei Talebani a Farah, che porta a 34 il numero dei soldati italiani morti in Afghanistan dall’inizio della missione. Ancora una volta il tormento per il nuovo lutto ma anche l’impegno delle Forze Armate nel proseguire le operazioni contro un nemico che si è fatto più pericoloso da quando – pressato dalle forze angloamericane – si sposta verso il quadrante controllato dal nostro contingente.
L’Italia non si tira indietro, siamo un Paese che negli anni della Guerra al Terrorismo ha mostrato di saper fare i conti con il prezzo di un conflitto. Le sirene della rassegnazione o del disimpegno cantino a vuoto: dopo l’attacco di stamattina, i Comunisti Italiani hanno evocato lo spettro del Vietnam mentre l’Italia dei Valori confondeva strumentalmente la “exit strategy” (la ben più complessa strategia di transizione del potere e della sicurezza dalla Coalizione alle autorità afghane) con uno sbrigativo leviamo le tende, ma se prestassimo ascolto alle cassandre il ritiro sarebbe dannoso non solo per gli afghani ma anche per noi stessi, svuotando di senso ciò che abbiamo fatto fino ad ora.
Detto questo è opportuno fare una riflessione realistica sull’andamento del conflitto, partendo dal presupposto che la nostra presenza in Afghanistan da un punto di vista strategico-militare dipende in larga parte dalle decisioni che vengono prese nella stanza dei bottoni della Casa Bianca. Dopo il suo insediamento, il Presidente Obama aveva detto che questa sarebbe stata la “sua” guerra, una guerra necessaria, da combattere fino all’ultimo per sconfiggere Al Qaeda. Effettivamente si può dire che l’internazionale jihadista sia stata sradicata dal Paese mentre continua ad essere martellata nella ridotta del Waziristan – che non significa averla sconfitta visto che i jihadisti si spostano di volta in volta in cerca di nuovi santuari in giro per il mondo.
Da quel momento Obama ha dato spesso l’impressione di traccheggiare, scontrandosi con i suoi generali, lasciandogli la parola quando invece per l’America sarebbe decisivo definire una strategia politica e non solo militare che porti fuori dal conflitto. Questa strategia, nella visione più generale di Obama, appare ancora opaca e non immediatamente risolutiva. Una situazione che non fa altro che indebolire le truppe sul campo, nonostante i rinforzi o il massiccio spiegamento di Droni e unità speciali. E’ quindi su questo punto che, venendo a noi, deve insistere la Farnesina quando si troverà ad esporre il proprio punto di vista con i colleghi del Dipartimento di Stato Usa. Che fare?
Il ministro Frattini ha indicato nel prossimo Vertice della Nato a Lisbona, in novembre, il momento in cui “accelerare, provincia per provincia, l’assunzione delle responsabilità di sicurezza e controllo del territorio da parte delle forze armate afghane”. Ci sono dei passaggi, dei “mattoni” nell’edificio del nation building che non possono essere rimandati in eterno. Se in Afghanistan non si ripeterà il meccanismo, insanguinato quanto virtuoso, che ha portato alla nascita della democrazia irachena, è bene capirlo il prima possibile perché a quel punto sarebbe inutile continuare a credere nella rinascita di un nuovo islam che non è detto debba per forza attecchire sul suolo afghano. Legare le sorti della missione a questo sforzo di comprensione, un bilancio razionale sui costi e i benefici della guerra, è innanzitutto compito del Presidente Obama.
Come ha detto il senatore del Pd Piero Fassino, commentando l’attacco ai soldati italiani, “Si può anche morire per la democrazia, per la lotta al terrorismo, per la dignità umana, per la civiltà, ma bisogna essere certi di arrivare al risultato che ci si è prefissati. La politica deve assumersi maggiori responsabilità rispetto alla presenza militare”. Una considerazione che sembra calzare a pennello sulle ondivaghe mosse del Presidente democratico, preoccupato forse più dall’esito del prossimo appuntamento elettorale che non da quello che avviene sulle montagne e gli altipiani dell’Afghanistan.
Ma se l’America nicchia, se nonostante il tanto esaltato multilateralismo Obama non riesce a coinvolgere la comunità internazionale e le grandi potenze dell’area nel processo di stabilizzazione del Paese, se non è chiaro, insomma, quali sono gli obiettivi per sedersi da vincitori al tavolo delle trattative con il nemico "pentito" o sconfitto, allora gli alleati degli Usa devono avanzare delle proposte e magari qualche soluzione. Anche per noi questa guerra ha un grave costo politico, sociale e di vite umane.