L’Italia non scordi che la missione in Afghanistan serve la nostra sicurezza

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L’Italia non scordi che la missione in Afghanistan serve la nostra sicurezza

29 Marzo 2012

I numeri hanno una loro poetica e una loro simbologia. Il numero cinquanta, per esempio, è uno di quei numeri: mezzo pieno ma non di meno, in qualche modo, colmo, con la pancia. Ma quella di cui parliamo è un’estetica numerologica nefasta, piena di dolore.

Si chiamava Michele Silvestri, il cinquantesimo militare italiano morto in Afghanistan, vittima di un attacco talebano a colpi di mortaio che ha ferito altri cinque militari del nostro contingente. Un incidente di battaglia che ha riportato prepotentemente al centro del dibattito italiano l’impegno dell’Italia nella missione di stabilizzazione a egida Nato che dal 2002 combatte contro i talebani nel paese centro-asiatico.

Non più tardi di ieri mattina, anche il ministro degli esteri italiano, Giulio Terzi, ha sentito il bisogno, al margine dell’incontro con Marc Grossman, l’inviato speciale Usa per l’Afghanistan, di unirsi al coro di coloro che non lasciano che l’ultima morte in Afghanistan alteri “i tempi descritti e annunciati”, cioè il ritiro dal teatro afghano a partire dal 2014, secondo la strategia d’uscita decisa dalla ‘Casa Bianca’ e dal ‘Pentagono’.

Ma il nodo del problema di tutta la faccenda è proprio l’atteggiamento dell’America. La presidenza di George W. Bush mandò l’esercito Usa a spodestare i talebani da Kabul dopo l’attacco dell’11 Settembre 2001. Una guerra vinta in fretta, ma con una pace mai vinta. E poi l’Iraq, le armi di distruzione di massa non trovate, la campagna elettorale del 2008, e l’allora candidato Democratico Barack Obama che spingeva come un forsennato per andare via dall’Iraq, ma non dall’Afghanistan. E ancora l’uccisione di Osama bin Laden in Pakistan, la mente degli attentati dell’11 Settembre, lo scorso Maggio 2011.

Insomma, sono gli americani che hanno voluto l’intervento in Afghanistan per privare i terroristi islamici di al-Qaeda di un nascondiglio sicuro nel regime afghano dei talebani; oggi, a più di un decennio di distanza, gli stessi americani, retti dai Democratici, negoziano con i nemici talebani. Le due facce dell’America: come ha spesso fatto notare l’analista statunitense Edward Luttwak: “Gli Stati Uniti non sono un impero”.

E dunque i nemici non vengono annientati. Al massimo, li si mette in posizione di debolezza – questo l’obiettivo del surge afghano di David Petreaus: indebolisci il nemico e portalo al tavolo delle trattative a pezzi. Ora, però, qualcosa si è rotto in quella strategia politico-militare. Sembrava funzionare, e invece tutto è saltato.

Come testimonia la sciagurata morte di Silvestri, nelle ultime settimane i talebani sono tornati alla carica contro le forze  ‘Isaf’, rafforzati tanto dalla consapevolezza che entro pochi mesi torneranno a farla da padrone in molte provincie afghane; e certamente ringalluzziti dalla (forse) ritrovata unità tra il blocco talebano afghano del mullah Omar e quello pachistano, il Teherik-e Taliban Pakistan, una sigla ombrello sotto la quale cadono i vari gruppi militari talebani presenti nel Waziristan pachistano, tra cui stanno anche l’efferata rete Haqqani, retta da Sirajuddin Haqqani e, guarda caso, il nuovo vertice di al-Qaeda, Abu Yahya al Libi.

Non è un caso che, sulla scia prima dell’accidentale rogo di alcune copie del corano e poi della strage di civili causata dall’attacco del sergente Usa, Robert Bales che ha causato la morte di 17 morti tra i civili afghani – oggi il graduato statunitense è sotto Corte marziale e rischia la pena di morte -, i talebani si siano concessi il lusso di alzarsi unilateralmente dal tavolo delle negoziazioni in corso fino alla scorsa settimana tra governo afghano, governo statunitense e rappresentanti talebani in Qatar.

E allora perché non andarsene via subito? Se il destino di questa missione è servire solamente l’agenda elettorale del presidente Barack Obama e del suo team, tanto vale tirare le somme e riportare “gli anfibi a casa”. La domanda pronunciata al Congresso nell’Aprile del 1971 dal veterano di professione anti-guerra in Vietnam, John Kerry, molto retorica ma ciò non di meno rimasta nella storia del ‘900 – “Come si fa a chiedere a un uomo d’essere l’ultimo uomo a morire per un errore?” – sembra calzare a pennello. L’errore in questione era ovviamente l’intervento militare in Vietnam tout court.

Ma la campagna militare afghana del 2002 è stato davvero un errore, come lo fu per molti versi quella in Vietnam iniziata dal presidente John F. Kennedy nel 1962? No, è la risposta più logica. Andare in Afghanistan è stato, non solo necessario, ma anche doveroso. I morti di New York, Londra, Madrid, senza contare le decine di migliaia di genti musulmane uccise dal terrorismo qaedista negli ultimi dieci anni, sono un’ottima ragione per impedire che il terrorismo islamista internazionale ritorni ad avere anche una territorialità sicura, com’è stato in Afghanistan durante gli anni ’90, quelli della reggenza talebana, del scorso secolo.

Le ragioni della ‘lunga guerra’ al terrorismo sono ancora tutte lì. I costi sono altissimi, certo. Ed è comprensibile la difficoltà d’associare a una missione in una remota terra centro-asiatica, la sicurezza delle nostre genti quì in patria. Eppure è proprio quello che è stato e quel che è. I nostri soldati in uniforme, uomini e donne, servono la nostra sicurezza, benché lo facciano a migliaia di kilometri di distanza da casa.

E le teorie del contenimento alla Cina, dell’inestirpabile bisogno americano di fare guerre per coccolare il comparto bellico di casa propria, assieme a tutta la paccottiglia di corbellerie complottiste che da anni tentano di spiegarci che il terrorismo islamista non c’entra e che le ragioni del nostro stare in Afghanistan sono altre, sono solo fuffa. Stare in Afghanistan serve, a patto però che la nazione leader del mondo libero, l’America, dimostri di volerla vincere quella ‘lunga guerra’. Altrimenti, non ha effettivamente senso restare.