“L’Italia vuole un cappello NATO per la no-fly zone”
23 Marzo 2011
L’Italia ha schierato otto aerei nelle azioni militari della campagna libica "Odissea all’Alba", quattro per dare la caccia ai radar di Gheddafi e altri quattro di scorta. Se il rais dovesse accendere i radar, ha detto oggi il sottosegretario alla Difesa, Guido Crosetto, "i nostri aerei spareranno". Con lui parliamo della scivolosa trattativa per arrivare a un comando unificato NATO delle operazioni, di Gheddafi, "un dittatore pazzo e molto furbo", degli assetti di potere della Libia del futuro, e più in generale del significato delle rivoluzioni che stanno attraversando il mondo arabo. Speranza o timore?
Sottosegretario, il presidente del Comitato atlantico italiano, La Loggia, ha definito un "successo italiano" il consenso sul maggiore coordinamento del comando Nato nelle operazioni in Libia. La Francia frena e il ministro degli esteri Juppè parla di un “ruolo tecnico” e non politico dell’Alleanza. Questo consenso c’è o non c’è?
Il mandato Onu si poggia su tre pilastri: la no-fly zone per proteggere la popolazione libica, l’embargo aereo e navale per impedire che arrivino armi a Gheddafi, l’assistenza ai civili. Per adesso, l’Italia ha ottenuto che ci sia un cappello NATO per l’embargo e l’assistenza ai civili.
Il problema resta la no-fly zone
C’è un accordo sulla no-fly zone “classica”, che prevede i bombardamenti dei radar e della difesa anti-aerea libica. Si continua a discutere con i francesi sulla no-fly zone “plus”, che invece prevede gli attacchi alla catena di comando di Gheddafi.
Perché per l’Italia è così importante il cappello NATO?
L’Alleanza ha una struttura di comando militare consolidata e un organo più “politico” – il Consiglio del Nord Atlantico – che permette ai capi di stato dei Paesi membri di riunirsi e prendere delle decisioni comuni. L’Italia vuole che la strategia dell’intervento in Libia sia decisa da tutti i membri e non, com’è avvenuto finora, che ogni Paese decida e proceda da solo.
Che vuol dire che il comando navale della missione è stato affidato all’Italia?
Non ha senso dirlo. Mettiamola così: se scendiamo nella catena di comando, la guida della componente navale del comando congiunto NATO, che si trova a Napoli, è stata affidata ad un ammiraglio italiano.
La Risoluzione 1973 delle Nazioni Unite è passata per impedire a Gheddafi di fare altri morti tra la popolazione libica. Ma il Colonnello continua a mietere vittime, a Misurata e nelle altre città dove si combatte.
La Risoluzione Onu fin dall’inizio è servita per evitare gli attacchi con aerei ed elicotteri sulla popolazione. E’ stata un segnale di risolutezza lanciato al leader libico. Ma Gheddafi non si è arreso.
Crede che basteranno gli attacchi dal cielo? O magari servirà una nuova Risoluzione Onu per un intervento terrestre?
La 1973 non esclude l’ipotesi di un intervento terrestre. Esclude una occupazione del territorio libico, ma non un intervento. Aggiungo però che questa ipotesi non è nelle intenzioni di attori importanti come la Lega Araba e l’Unione Africana.
Il premier Berlusconi lavora a una via diplomatica per il dopo Gheddafi?
Cercare una via diplomatica è la strada più semplice. Anche una eventuale rimozione dal potere di Gheddafi non è qualcosa di impossibile. Quello che sarà davvero difficile sarà la fase successiva. In Libia ci sono decine di tribù, che Gheddafi fino adesso ha tenuto insieme con la paura e con i soldi.
Chi saranno i nostri interlocutori dopo la caduta del Rais?
Questo dovranno deciderlo i libici, ovviamente. Non vogliamo imporre una democrazia teleguidata ed è per questo che dobbiamo permettere all’Onu di creare un tavolo attorno a cui siedano i diversi rappresentanti del popolo libico.
Guardiamo oltre la Libia, alle rivoluzioni che negli ultimi mesi hanno investito il nordafrica, il mondo arabo e musulmano. Dobbiamo sperare in un risveglio democratico o invece temere l’islamismo ed eventuali infiltrazioni terroristiche?
Il rischio dell’islamismo c’è. C’è anche un rischio determinato dal fatto che a sollevarsi è stata una popolazione giovane, prostrata dalla crisi economica internazionale, che magari ha un buon livello scolastico ed è attratta dallo stile di vita occidentale. Questi giovani possono imputare la colpa della loro condizione di vita ai loro governi oppure all’Occidente. In un caso o nell’altro, i paesi occidentali non possono fare granché per intervenire.
E’ cambiato qualcosa rispetto al periodo successivo all’11 Settembre?
C’è una generazione nuova e diversa nei Paesi arabi. Il mondo si è ristretto, è diventato più piccolo e facilmente raggiungibile. Questo ha aiutato nella formazione di una coscienza collettiva che, soprattutto fra i giovani, permette di distinguere la propaganda dalla realtà delle cose. E questa, a mio parere, è sola speranza che abbiamo.