ll mondo abbandona i tibetani alla repressione della Cina

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ll mondo abbandona i tibetani alla repressione della Cina

ll mondo abbandona i tibetani alla repressione della Cina

18 Marzo 2008

Il Tibet è solo
nella ribellione contro Pechino. In Cina, per il senso di identità imperiale
Han, i cinesi propriamente detti, nessuno si scalda per il Tibet mentre è in
corso la repressione; all’estero, la Realpolitik limita le reazioni dei governi
a contenute espressioni verbali, mentre il Vaticano, impegnato in delicati
contatti, osserva il silenzio. E nessuno boicotterà le Olimpiadi.

Quel che è
straordinario è che la rivolta ci sia stata. Ogni anno a marzo si hanno a Lhasa
piccole manifestazioni in ricordo della fallita sollevazione del 1959, in
genere agevolmente contenute e disperse dalla polizia. Questa volta, forse per
iniziale esitazione nell’uso della forza, nella doppia immagine che in vista
delle Olimpiadi la Cina vuol dare di sé – società armoniosa ma vigilante sulla
sicurezza – la protesta si è allargata e aggravata: grazie alle immagini
trapelate, è divenuta uno spettacolo internazionale della repressione che ne è
seguita, mostrando una Cina repressiva e al tempo stesso impotente. Il peggio
verso l’esterno e verso l’interno. Per questo, avendo addosso gli occhi del paese
e del mondo, Pechino, isolata la regione, riafferma il pugno duro e non esita
nel completare la repressione non soltanto a Lhasa, ma anche nelle altre province
dove monaci e comunità tibetane hanno provato a sollevarsi. Non intende dare
alle proteste il minimo spazio, nel timore che una certa flessibilità possa
essere interpretata come debolezza.

No, non ci sarà per
il Tibet una intifada o una rivoluzione arancione come in Ucraina. Qualsiasi
protesta sarà implacabilmente stroncata, cercando di bloccare al massimo il
flusso di notizie e immagini all’esterno, mentre è già stato sospeso il turismo
verso la regione, che ha avuto l’anno scorso un milione e mezzo di visitatori.

Lo stesso capo
del partito e dello stato, Hu Jintao ha costruito la sua carriera con dure
repressioni in Tibet: era capo del partito a Lhasa quando nel marzo 1989 vi
scoppiarono rivolte che non esitò a stroncare con lo stato d’assedio. E ciò
avvenne solo poco prima delle grandi manifestazioni a Pechino sfociate poi
nella strage della Tiananmen. Non c’era relazione tra i due moti: ma agli occhi
dell’alta dirigenza la sua fermezza fu modello esemplare.

Sul piano
interno, il potere non ha preoccupazioni. La causa del Tibet non scalda il
cuore di alcun cinese, benché vi siano circa 150 milioni di buddisti, i quali,
come altri credenti, possono praticare la loro religione solo se sottomessa al
partito comunista. L’indifferenza, se non astio, per il Tibet, non è solo perché
la propaganda parla soltanto di innocenti civili uccisi dai rivoltosi, e la Tv
mostra assalti alla Banca di Cina e a negozi di cinesi. L’elemento di fondo è lo
storico senso imperiale e il crescente nazionalismo Han, i cinesi propriamente
detti, cresciuti nel convincimento che il Tibet è storicamente parte della
Cina, benché abitato da una minoranza diversa. Ed esso è importante quale “zona
cuscinetto” verso l’India, storica rivale, o altre potenze presenti in Asia
centrale. Nel miglioramento generale del tenore di vita nonostante le
disuguaglianze, si teme che l’instabilità possa mettere a repentaglio lo
spettacolare sviluppo che già di per sé sollecita tutta la fierezza nazionale.
Il partito, avendo rinunciato all’ideologia conservando l’autoritarismo, agita
da tempo motivi nazionalistici, per i quali il successo delle Olimpiadi costituisce
non solo legittimazione internazionale del regime, ma riconoscimento da parte
del mondo dell’importanza della Cina quale nazione, e delle sue capacità
organizzative per il maggior evento sportivo del pianeta. Tutto ciò è ora messo
a rischio, nella comune mentalità cinese, da una piccola minoranza che
addirittura protesta contro la modernizzazione portata in Tibet, e contro la
libertà di movimento grazie alla quale tanti Han vi si sono trasferiti,
contribuendo al suo sviluppo.

Dopo le
devastazioni dell’età maoista, Pechino ha in effetti trasformato il Tibet con
una modernizzazione accelerata, se non brutale. A lungo gli Han erano solo una minoranza
di funzionari di partito, burocrati, militari, poliziotti. Con le riforme, la
gente comune ha cominciato a spostarsi, e Pechino ha incoraggiato gli
insediamenti di Han con vari incentivi, da facilitazioni fiscali e creditizie a
esenzioni dalla regola del figlio unico. Ha sottratto la regione all’isolamento
con una ferrovia, inaugurata nel 2005, che collega Lhasa a Pechino: un’opera di
alta ingegneria, oltre mille chilometri di binari impiantati sul permafrost a
oltre 4.000 metri di altitudine. Il risultato è che i tibetani sono diventati
minoranza, mentre gli Han sono dominanti come numero e come corpo sociale
etnico in campo economico e politico. Scopo ultimo è l’assimilazione e la
sinizzazione del Tibet, in gran parte già avvenuta. 

Nella visione
della Città Proibita pesano il timore di interferenze straniere come per la
rivoluzione arancione in Ucraina, e l’esempio del Kosovo, da provincia serba
divenuta adesso indipendente. Anche se lo stesso Dalai Lama non ha questo
obiettivo, reclamando solo autonomia reale lasciando a Pechino gli affari
esteri e la difesa, la Cina nutre questi sospetti, e considera interferenze
straniere nell’ambito del “genocidio culturale” da lui denunciato, anche
secolari pratiche religiose facenti capo a lui stesso. Seguendo i principi
della reincarnazione, il Dalai Lama scelse infatti nel 1995 un ragazzo di 6
anni che viveva a Lhasa, quale Panchen Lama, il secondo monaco subito dopo di
lui nella complessa gerarchia religiosa. Ma quasi subito il bambino scomparve
con la sua famiglia, e di loro non si è più saputo nulla. Poco dopo Pechino
nominò per quel posto un altro ragazzo, ora di 17 ani, esibito nell’ottobre
scorso quale ospite d’onore al congresso del partito comunista. L’agenzia Nuova
Cina ha diffuso in questi giorni la sua condanna delle proteste dei tibetani, e
il suo “deciso sostegno al partito e al governo nell’assicurare sicurezza e
stabilità a Lhasa”.

Senza
preoccupazioni interne nella repressione, Pechino non ne ha neanche di
carattere internazionale. La Cina non è la Serbia. Con riserve per oltre 1.500
miliardi di dollari, è il maggior creditore del mondo, specie gli Stati Uniti,
avendoli investiti in gran parte in bond Usa. Ha ricevuto investimenti
stranieri per oltre 800 miliardi di dollari, ed è altamente integrata
nell’economia mondiale: i suoi prodotti a basso costo hanno contribuito a
limitare l’inflazione negli Usa e in Europa, e per alcuni settori high-tech,
come telefonini e computer, è tra i maggiori produttori; ed è essa stessa
sbocco di molte esportazioni occidentali.

Politicamente, ha
il veto all’Onu, si è mostrata in qualche modo collaborativa sull’Iran, e tiene
a bada la Corea del Nord, che anche grazie alle sue pressioni ha rinunciato,
almeno dice, al nucleare, favorendo Bush nel toglierla dall’asse del male. Senza
farsi condizionare da Pechino, la Merkel e Bush hanno ricevuto nei mesi scorsi
il Dalai Lama, ma ora, come tutti gli altri, non possono fare di più. In Cina,
per il senso imperiale Han, il Tibet è solo. Fuori, condannato dalla
Realpolitik, gode soltanto di simpatia di amici impotenti.