Lo scranno più alto della Bce può rivelarsi scomodo anche per uno “british” come Draghi
28 Settembre 2009
L’ipotesi che Mario Draghi sostituisca alla guida della Bce l’attuale governatore Jean-Paul Trichet, vicino alla scadenza, comincia ad essere discussa in vari ambienti ed è sempre più presa in considerazione dopo che The Wall Street Journal ha suggerito proprio il nome dell’economista italiano quale auspicabile candidato alla testa della banca europea.
Tutto questo è il frutto di una serie di cose. In primo luogo, ciò attesta come Draghi nel tempo si sia costruito l’immagine di persona credibile, ma soprattutto indipendente. Nel suo ruolo di banchiere centrale in Italia e anche quale responsabile del Financial Stability Board, ha saputo muoversi con equilibrio e autonomia. Certamente espressione di quegli orientamenti ortodossi i cui limiti sono ben noti (un’area culturale dominata dall’idea, ad esempio, che dalla crisi si esca con nuovi strumenti regolatori di controllo…), in questi mesi Draghi si è comunque mosso mostrando grande ragionevolezza.
L’esistenza medesima di una tensione polemica con il ministro Giulio Tremonti è in fondo una riprova del fatto che Draghi ha saputo tenere una qualche distanza dal governo italiano: senza per questo diventarne un oppositore.
In secondo luogo, non soltanto Draghi è stato mosso dalla preoccupazione di salvare la specificità del proprio ruolo, ma per giunta arriverebbe a Francoforte quale espressione di uno dei quattro Paesi più “centrali” dell’Unione (Germania, Regno Unito, Francia e Italia), pur non essendo l’uomo di fiducia di questo o quel leader politico.
La questione è importante, perché bisogna sempre tenere presente come l’euro – fino ad oggi – possa vantare una performance relativamente migliore rispetto al dollaro proprio perché non è la moneta di un Paese, ma di un alto numero di realtà assai diverse: un club che è pure destinato ad allargarsi negli anni a venire. In questa situazione, può anche essere opportuno che il governatore sia espressione di uno dei maggiori Paesi, ma solo a condizione che ciò possa servire a rafforzarlo e non a farne la semplice espressione di logiche politiche. In tal senso, l’attitudine british di Draghi appare una garanzia.
In fondo, bisogna sempre ricordare che la Bce ha sede a Francoforte perché i tedeschi hanno accettato la rinuncia al marco solo in cambio della promessa che la nuova moneta sarebbe stata un marco su più ampia scala, ma egualmente caratterizzato da una notevole indipendenza rispetto alle esigenze dei governi. Fino ad oggi le cose sono andate relativamente bene, proprio perché mentre per chi gestisce una moneta nazionale è difficile salvare la propria autonomia dinanzi al ceto politico nazionale e alle (vere o presunte) necessità del bilancio pubblico, questo appare relativamente più facile nel caso di una banca che si rivolge a Paesi con situazioni anche molto differenti. Nell’impossibilità di adottare una politica monetaria che soddisfi tutti, ci si può meglio indirizzare verso le scelte che si considerano più appropriate. Si sbaglierà lo stesso, magari, ma per altri motivi.
Nell’ipotesi in cui Draghi dovesse giungere alla testa della Bce, la situazione che egli sarebbe chiamato a gestire appare comunque complicata. La buona prestazione che in questi anni l’euro ha offerto nella sua competizione con il dollaro non deve far dimenticare che, in realtà, anche il Vecchio Continente rischia di seguire gli Stati Uniti sulla strada di un’espansione monetaria sempre più accelerata. E se nei giorni scorsi l’ex presidente della Fed, Alan Greenspan, ha preannunciato per l’America un’inflazione a due cifre, il fatto che non ci si sia mai troppo discostati dalle scelte di fondo assunte a Washington non promette nulla di buono. Naturalmente tutto resta aperto e gli stessi Stati Uniti sono ancora in grado di porre rimedio: se eviteranno di affondare la moneta e l’intera economia americana sulla strada del salvataggio di questa o quella impresa.
Purtroppo, la cultura economica prevalente all’interno delle istituzioni monetarie è tale che manca il coraggio di andare alla radice del problema: e cioè il monopolio della moneta e la conseguente assenza di logiche competitive in tale ambito. Per giunta da entrambi i lati dell’Atlantico esiste il rischio che neppure si adottino quelle opzioni più moderate e ragionevoli, eppure capaci di porre un freno alla massiccia redistribuzione di risorse conseguente all’espansione monetaria.
Se dovesse rivelarsi vera la profezia di Greenspan e se la stessa Europa dovesse finire per trovarsi in una tale situazione, la struttura politica “federale” della Bce – che fino ad oggi è stato un fattore di forza – potrebbe originare tensioni spaventose. È facile prevedere che da parte di taluni Paesi (la Francia, ad esempio) si avanzerebbe con forza la richiesta di una condotta ancor più populista, a breve termine, capace di intervenire nell’immediato anche se questo – in prospettiva – finisce per aggravare ulteriormente una situazione già compromessa.
Gli anni a venire sono destinati ad essere anni difficili per l’economia globale e, di conseguenza, potrebbero mettere a dura prova la tenuta della Banca centrale europea. Quello dell’euro è stato ed è un esperimento azzardato, anche se finora baciato da un relativo successo: un’unificazione monetaria dettata dalla volontà di spingere avanti quanto più sia possibile la stessa unificazione politica. Per questo motivo, un’eventuale disintegrazione dell’euro, che certo nessuno può escludere, avrebbe conseguenze fondamentali sulla stessa tenuta dell’Unione.
Quella del governatore della Bce, nei prossimi tempi, rischia insomma di essere una poltrona tanto scomoda per chi la occupa quanto importante per il futuro del continente.