
Lo spettro del liberismo al tempo del coronavirus

09 Marzo 2020
Causa immancabile e immarcescibile per ogni catastrofe che si verifica sulla terra, il liberismo è tornato al centro dell’attenzione al tempo del coronavirus. Non poteva essere altrimenti. Sono momenti che vedono un’erosione forzata di quelle presunte certezze che l’uomo-massa pensava di avere, possedere e poter manipolare a proprio piacimento. C’è bisogno, dunque, di trovare un capro espiatorio classico, una (informe) figura, lugubre e bieca, che asservisce, impoverisce, inaridisce moralmente il mondo. Insomma, ancora una volta il colpevole per questa ennesima sciagura è il liberismo che selvaggiamente provoca danni a destra e a manca. Come ha scritto Alberto Mingardi in uno dei pochi libri atti a dimostrare che la libertà in generale, e la libertà economica nella fattispecie, non sono dei mostri, «proprio perché siamo molto sensibili a tutto quel che non funziona, abbiamo bisogno di individuarne i responsabili. In un mondo complesso, i nessi causali debbono essere semplici: se qualcosa va storto, dev’essere colpa di qualcuno. È così che si spiega la fortuna, si fa per dire, del neoliberismo: nel senso della parola» (La verità, vi prego, sul neoliberismo, Marsilio, 2019, pp. 14-15).
Certo, il liberismo. Ma cos’è esattamente? A leggere il commento di Carlo Petrini (“La Stampa”, 08.03.2020) non è che si capisca poi tanto. Quello che risulta chiaro è che questo flagello di Dio ha fallito, almeno nell’ottica del decrescista, creando miseria materiale e morale. Diciamo che i nessi causali non sono esattamente evidenti nell’articolo: si passa dal coronavirus alle estreme e abiette disuguaglianze che renderebbero guasto il mondo. Quello che emerge plasticamente, invece, è la sempre attuale colpevolizzazione dell’Occidente, mentre non una parola è spesa per la Cina, che pure svolge un ruolo centrale in questa situazione sanitaria delicata. Insomma, una sindrome che non pochi affligge, e non da oggi, all’interno delle società occidentali: vedere il male radicale dentro (Occidente) per di più esportato nel resto del globo, mentre la buona incontaminata purezza sta fuori, anche se non si sa bene dove. Su questo basta leggere a caso uno dei numerosi e preziosi libri che Luciano Pellicani ha dedicato all’argomento.
Per non farci mancare nulla, poi, la spesa pubblica, nella prospettiva dell’autore, è stata copiosamente tagliata da numerosi decenni. La questione interessa gli economisti e, non essendolo, non mi permetterò di pontificare sul tema. Si può probabilmente asserire che certi settori hanno visto tagli ingenti, ma sostenere che in Italia – un Paese il cui debito pubblico ammonta a circa il 135% del Pil – la spesa pubblica sia carente, quantomeno un sorriso lo strappa. Ma andiamo avanti.
Infatti, ciò che segue è in buona sostanza la cura, la terapia che si prospetta: il ritorno all’antico, alla solidarietà pre-capitalista, a un’economia di prossimità (diciamo pure: pressappoco autarchica). Insomma, il coronavirus ha fatto esplodere le contraddizioni perverse insite nel sistema capitalistico-liberale – che poi, considerata la massiccia mole di regole e interventi del pubblico nell’economia nazionale e nello scambio internazionale, tanto liberale non è – destinato, finalmente secondo Petrini, ad esplodere e a farci cambiare idea e rotta. Solidarietà, tale è l’adamantina chiave che l’autore individua per redimere il marcio che esiste. Ma cosa significa? Solidarietà è una bella parola, e sicuramente fa parte di quelle qualità che vanno coltivate al di fuori del mercato. Tuttavia, come ha scritto Dario Antiseri in aureo libretto – Principi liberali, Rubbettino, 2003 – «se non vogliamo che la solidarietà si riduca ad un reciproco pianto sulle nostre miserie […] dobbiamo asserire – intellettualmente convinti e moralmente motivati – che è l’economia di mercato a configurarsi come un vero e proprio strumento di solidarietà. Certo, una società che abbia abbracciato l’economia di mercato non è e non sarai mai il paradiso in terra». Ma lo è forse il ritorno a piccole comunità autarchiche? Certamente no. «Si guarda al mercato delle armi e al traffico di droga e si rifiuta la logica di mercato. È forse questo un valido argomento? Sarebbe come dire che occorre abolire la scienza perché la fisica ha scoperto l’energia nucleare e la chimica ci ha fatto conoscere gli effetti del curaro. Ma è chiaro che se uno usa il curaro per uccidere un’altra persona, la colpa non è del curaro né della scienza; colpevole è soltanto l’assassino e malvagia la sua etica» (pp. 76-77). La libertà economica è lo strumento attraverso il quale è possibile generare la più ampia disponibilità di beni e servizi. Ciò non significa che essa possa stare in piedi da sola.
Anzi, diciamo pure che la libertà non può esistere senza tutta una serie di virtù che devono essere coltivate strenuamente e tenacemente, ma che, ahimè, sono piuttosto rare (rispetto dell’altro, senso del limite e di responsabilità). Ne è una prova ciò che è successo dopo il provvedimento di parziale chiusura della Lombardia e degli altri territori. Il problema tuttavia non è il liberismo o, se ce lo permettono i suoi critici per provare a rendere più comprensibile questa etichetta, i suoi sinonimi più prossimi, cioè a dire il libero mercato e la libertà economica. Il problema è, semmai, il non comprendere come la libertà e la società aperta non possano sopravvivere senza quella responsabilità che consente loro di affrontare le tempeste di ogni giorno e, così, di tentare di farci prosperare. La chiave è tornare a comprendere la fragilità dell’uomo e, di conseguenza, la precarietà che caratterizza il mondo in cui esso vive. Non è scaricando addosso a un’etichetta che non può rispondere che si risolvono le questioni. Semmai, la strada maestra è provare a migliorare l’esistente, tenendo conto degli errori commessi e della connaturata gracilità del nostro mondo, ma senza prospettare panacee inesistenti, che siano insipienti salti indietro, o illusori e fallaci passi avanti dal sapore perfettistico. Umiltà e senso di responsabilità che gli individui devono riscoprire per non cadere sotto i colpi inferti non solo dagli imprevisti – che fanno parte dell’incertezza della condizione umana ma che non siamo più in grado di fronteggiare – ma soprattutto dai nemici esterni ed interni allo stesso Occidente.