Lo spiraglio sugli ogm e l’avversione ideologica di Zaia
01 Febbraio 2010
La notizia della sentenza del Consiglio di Stato che dà ragione all’agricoltore friulano Silvano Dalla Libera, vicepresidente di Futuragra, consentendo a lui e agli agricoltori italiani di coltivare varietà di mais OGM in ottemperanza alla normativa europea è sicuramente una buona notizia. E’ una buona notizia perché supera l’ostruzionismo del ministro Zaia e delle regioni in una materia dove finora i pregiudizi sono stati inverosimilmente tenuti in maggior conto delle ragioni della scienza.
Nonostante nessuno finora sia mai riuscito a dimostrare (e ci hanno provato in tutti i modi) che le colture OGM siano dannose per la salute o per l’ambiente, il ministro leghista reagisce alla sentenza con un gergo e delle argomentazioni che sembrano tratte dal blog di Beppe Grillo, parlando addirittura di “un consumo che divide la popolazione in abbienti che hanno la possibilità di alimentarsi con cibi biologici e certificati e di classi socialmente disagiate che devono adattarsi al cibo geneticamente modificato; un mondo agricolo che viene privato del valore dei semi, che inevitabilmente finiranno nelle mani delle multinazionali”.
Ma la questione degli OGM richiama un problema più ampio: fino a che punto può essere consentito alle regioni, al ministero, all’UE, di sindacare su ciò che coltivano gli agricoltori sui loro terreni? Dove finisce la libera scelta di un imprenditore agricolo di operare sul mercato come meglio crede? In realtà la sentenza del Consiglio di Stato dà ragione a Dalla Libera in base a una normativa europea comunque molto restrittiva, che fornisce un elenco già abbastanza limitato di varietà di mais e, se non sbaglio, soia OGM di cui autorizza la coltivazione. Ben poca cosa rispetto a ciò che avviene in altri continenti. E perché poi solo il mais e la soia? Chi coltiva grano ha ben poche speranze di vedere riconosciuto il suo diritto equivalente, almeno finché non cambia la normativa europea. Ma, a ben vedere, se guardiamo i criteri su cui si basano le politiche agricole regionali, nazionali e comunitarie, di libero c’è ben poco. Tutto ruota intorno a quote, sussidi, disciplinari, denominazioni d’origine creati in teoria per tutelare gli agricoltori, i consumatori e i territori ma che hanno finito per immobilizzare il comparto agricolo in un precario status quo.
Se voglio piantare un vigneto, tanto per fare un esempio, devo avere in mano i cosiddetti “diritti di reimpianto”. Ovvero, dato che la superficie vitata nel nostro paese è contingentata, devo acquistare il “diritto” di piantare un vigneto da qualcuno che ha espiantato una superficie equivalente, oppure attingere a una “riserva” gestita dalle regioni che indirizzano queste “quote” come meglio credono, in genere verso zone a denominazione d’origine controllata. Questo, oltre a ledere il diritto naturale di ciascuno di coltivare e commercializzare a casa sua ciò che ritiene più opportuno, ha creato un sottobosco di compravendite di “quote” e “diritti”, spesso più fruttuoso (o costoso) delle produzioni stesse, in cui la parte degli intermediatori è svolta dagli uffici regionali e dalle associazioni di categoria.
Se aggiungiamo che la possibilità di commercializzare i prodotti è garantita dall’adesione ai disciplinari, cioè criteri produttivi, anch’essi imposti dall’alto, il quadro è completo. Il valore dei terreni all’interno delle cosiddette zone DOC è schizzato alle stelle, mentre per chi possiede terreni vocati alla viticultura al di fuori di esse aggredire un mercato così protetto è di fatto un’impresa titanica. Un’impresa a cui si finisce per rinunciare in partenza. Il vantaggio per la rendita fondiaria è evidente, ma dove sia il vantaggio per il sistema agricolo nel suo complesso e per i consumatori è tutto da scoprire, a meno che non consideriamo un vantaggio acquistare a prezzi elevati un prodotto la cui qualità è certificata all’origine e non dal gradimento dei consumatori.
Chissà se i viticoltori californiani avrebbero avuto lo stesso successo nel proporre al mercato mondiale vini di qualità a prezzi ragionevoli se la loro produzione fosse stata sottoposta a un sistema di vincoli così stringente. Chissà se avrebbero superato le resistenze dei consumatori di vino italiani e francesi se avessero ottenuto dal loro governo un’etichetta con scritto “vino buono” pagandola con la libertà di fare il vino come pareva a loro, cioè ricercando il prodotto migliore al prezzo migliore.
L’arrogante presunzione di volere indicare agli agricoltori e ai consumatori ciò che è giusto produrre e consumare che traspare dalle parole di Zaia è la stessa che ispira le politiche agricole del nostro continente ormai da decenni, ma che sta portando al collasso l’intero settore. Ai contribuenti può essere richiesto di mantenere l’agricoltura e gli agricoltori con i sussidi, ma pretendere poi, per giustificare ideologicamente questo sistema, che paghino anche un sovrapprezzo sull’etichetta dei prodotti che consumano sembra francamente troppo.
Tratto da Libertiamo.it