Lo Stato liberale di Zagrebelsky è illiberale
27 Ottobre 2007
In un articolo apparso
su “la Repubblica” il 17 ottobre 2006, il prof. Gustavo Zagrebelsky, già
presidente della Corte Costituzionale, ha sostenuto una tesi tanto discussa
quanto controversa. Riflettendo a margine dell’affermazione del
costituzionalista Ernst W. Böckenförde, in merito alla necessità che lo stato
liberale e secolarizzato cerchi, oltre le procedure che lo determinano, i
presupposti che esso stesso non può garantire, Zagrebelsky sostiene
l’inconciliabilità di tale assunto con la tradizione liberale.
In primo luogo, pur
evidenziando la rilevanza della distinzione operata da Zagrebelsky tra asserti
“descrittivi” e asserti “normativi”, non si comprende come
e perché egli la usi per negare rilevanza pubblica alla prospettiva cristiana,
la quale, contrariamente a come recita il titolo dell’articolo, non intende
“dettare” legge allo stato. Invero, si tratta di una distinzione molto
importante che aiuta a comprendere le ragioni della società libera e che
contribuisce a porla al riparo dalle derive totalitarie di ogni sorte e genere.
È noto, infatti, che nella tradizione liberale tale distinzione è posta a fondamento
della società libera, affinché quest’ultima non cada vittima della “presunzione
fatale” di considerare un particolare convincimento un dover essere necessario.
Come negare che, storicamente, le filosofie politiche che hanno maggiormente
ceduto alla deriva totalitaria, negando la distinzione operata da Zagrebelsky,
sono state proprio quelle che, in nome della presunta conoscenza del destino
ultimo della storia, hanno finito per calpestare la libertà politica, economica
e religiosa, tentando di cancellare l’esperienza religiosa dalla scena
pubblica: multa exempla docent.
In secondo luogo, per la
tradizione del cattolicesimo politico, almeno quello di matrice sturziana e
degasperiana, gli aggettivi “liberale” e “secolarizzato”
non sono necessariamente un binomio e, comunque, non è necessario che tali
aggettivi siano coniugati in termini antireligiosi. Dopo tutto, è stato
l’avvento del cristianesimo a produrre (per via inintenzionale) quella
rivoluzione nella storia degli ordinamenti politici che ha comportato la
desacralizzazione dell’autorità politica e la sua sottomissione al regno
inviolabile della coscienza. Suggerisco al prof. Zagrebelsky di porsi la seguente domanda: che cosa
saremmo noi europei senza il Cristianesimo? Si tratta di un’esperienza che,
storicamente, passando per errori ed orrori, ha saputo sviluppare una continua
pressione sulla forza coercitiva del potere costituito. La lapidaria sentenza
di Gesù: “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” – al di
là di una coerente analisi esegetica -, fa notare il prof. Antiseri,
rappresenta una svolta decisiva che ha favorito il processo di
democratizzazione e la pietra angolare delle moderne democrazie. Con ciò, una
volta per tutte ed in modo travolgente, è stato introdotto nella storia il
principio che “Káisar” non è “Kyrios” – la definitiva desacralizzazione
del potere politico, la sua sottomissione al regno inviolabile della coscienza
ed il rispetto per la trascendente dignità della persona umana. Ed allora,
conclude Antiseri, affermare che “Káisar” non è “Kyrios” significa
innanzitutto mettere sotto scacco il potere politico con le sue pretese
onnivore e riconoscere le conseguenze politiche di questo principio religioso:
esso è alla base del principio di sussidiarietà orizzontale che esalta la
realizzazione del progetto della società civile, ossia, il paradigma
dell’autogoverno.
Dopo tutto, come può negare
il prof. Zagrebelsky che proprio la ricerca di
un fondamento nella sfera meramente procedurale che potesse restituire omogeneità
all’ordine politico, dopo il dissolvimento dell’unità religiosa (è questa la
storia dell’Europa all’indomani della riforma protestante), abbia trovato il
suo punto massimo nella sacralizzazione dello “Stato” o di qualche altra forma
di divinizzazione che via via ha assunto il nome di “Razza”, di “Nazione”, di
“Classe” e via dicendo?
L’esperienza vissuta e
l’elaborazione culturale prodotta dalla riflessione cristiana hanno consegnato
un principio sul quale la cultura politica, giuridica ed economica da tempo
hanno fatto i conti. Si tratta del principio di sussidiarietà. Tale cardine della dottrina
sociale della Chiesa disegna la giusta articolazione tra i soggetti che
compongono il variegato corpo sociale. Se la persona e la famiglia hanno una
fondazione ed una legittimazione autonoma dallo “Stato” e, di conseguenza, lo
precedono e, in un certo senso, lo pongono in essere, ne consegue che lo
“Stato” deve in primo luogo rispettare e promuovere queste dimensioni, senza
alcuna pretesa egemonica. Tutto ciò significa che lo “Stato” dovrà astenersi
sempre dal promuovere azioni che siano di competenza delle comunità che lo
precedono. Ignoranza,
fallibilità e limitatezza fisica e morale sono le ragioni in forza delle quali
da sempre la dottrina sociale della Chiesa propone tale principio. Non si
tratta, allora, di pensare ad un nuovo fondamento, quanto di riconoscere la
rilevanza dell’esperienza: una cultura, un sentire comune ed un ethos di popolo
che assumono la forma di società civile, intesa non come massa informe, ma come
l’ordine spontaneo di comunità poste in essere da persone libere con il
proposito di perseguire un obiettivo di interesse sociale. È questo anche
l’antidoto più potente contro le pretese onnivore dello “Stato” onnipotente.
Ciò che a mio modestissimo
parere appare incomprensibile nell’articolo di Zagrebelsky è il modo in cui
egli darebbe per scontato l’assunto che i principi religiosi siano un fattore
esterno al vivere sociale. Questi, al contrario, sono percepiti da chi li
testimonia come il motore stesso del proprio vivere sociale. La lezione di un
liberale come Tocqueville dovrebbe insegnare! Se si assume – come fa
Zagrebelsky – che l’esperienza di fede rappresenta un elemento esterno allo
stato liberale, vuol dire semplicemente che si è scelto di assumere una ben
determinata scala valoriale, una specifica istanza antropologica, assegnando a
questa, e negandola ad altre, il ruolo egemone di fattore interno; e allora mi
domando: non è forse questa un’operazione lucidamente illiberale? L’operazione
di Zagrebelsky è quella di espellere la proposta antropologica cristiana dalla
scena pubblica, accompagnata dalla subdola presunzione che esistano una cultura
e un’antropologia eticamente neutre. Ma non c’è nulla di più insensato della
pretesa neutralità delle prospettive antropologiche! In quanto tutti gli
assunti sono eticamente orientati. Non si capisce perché mai i cristiani
dovrebbero auto-censurarsi (o comunque farsi da parte) e scomparire dalla scena
pubblica, dal momento che la loro prospettiva infastidirebbe altre proposte
antropologiche.
Mi dispiace per Zagrebelsky,
ma i cristiani sono convinti di poter offrire un contributo significativo
all’edificazione di un ordine sociale tutt’altro che perfetto, ma che abbia nel
proprio DNA gli antidoti contro la deriva totalitaria. Nessuno pretende di
imporlo e non si dica che ciò significherebbe la fuoriuscita dalla tradizione
liberale – ovvero, se proprio si è convinti di ciò, lo si motivi meglio. Non è
forse stato un laico non credente come Hayek a parlare di necessario incontro
tra liberalismo e cristianesimo per il consolidamento delle stesse istituzioni
liberali? Forse, e del tutto legittimamente, per Zagrebelsky Hayek aveva torto,
così come avrebbero torto tutta una serie di grandi autori liberali. Tuttavia,
la storia ci insegna che lì dove le istanze religiose sono state soffocate o
rese irrilevanti sono emersi idoli feroci per la cui demolizione è stata
necessaria la testimonianza fino al martirio di tanti cristiani: preti e laici.