“Lo storico è come il giudice: cerca gli indizi che gli raccontino la verità”
04 Gennaio 2009
Nei saggi di Luciano Canfora, storico e filologo, il metodo della ricerca storica è imparentato con la detective story. E’ il caso del recentissimo “La storia falsa” (Rizzoli), in cui si analizzano alcuni “non detti” riguardo a una lettera del dirigente comunista Ruggero Grieco che Antonio Gramsci ricevette in carcere e che aggravò la posizione giudiziaria di quest’ultimo. Lo stesso metodo ricorre anche in molti suoi libri precedenti.
Professor Canfora, a questo approccio non è estranea forse una formazione filologica…
In questo c’è del vero. La formulazione alla quale mi piace riferirmi è quella di Marc Bloch. Il fondatore degli Annales ne “L’apologia della storia”, libro bellissimo e famoso perché scritto poco prima che i tedeschi catturassero l’autore che poi venne fucilato, scrive in apertura che il compito principale dello storico è distinguere il vero dal falso. Ogni passo, ogni documento, pone lo storico dinanzi a questo problema. E come si fa a distinguere il vero dal falso se non attraverso un’indagine indiziaria? Il mestiere dello storico e del giudice, o dell’indagatore, sono simili. Non è una scoperta né mia né di Bloch. Tucidide, quando parla degli indizi della storia, usa la parola “tekmerion”, che significa “indizio che davanti a una corte di giudici può far propendere per una risposta o per un’altra”. Quindi l’identità della parola nei due mestieri è già nelle origini della storiografia. Carlo Ginzburg, autore tra l’altro del pamphlet “Il giudice e lo storico”, scrisse un articolo intitolato “Spie”, nel senso di quegli indizi che portano il ricercatore vicino alla verità. Certo, il presupposto è che esista la verità. Alcuni scettici non ci credono, ma secondo me è il presupposto molto concreto da cui partire.
E’ un metodo applicabile a ogni periodo storico, dalla Atene classica a Salò?
Fino a oggi. Quella realtà così lontana in un certo senso ci sembra più inattingibile. Abbiamo soltanto quel poco che c’è rimasto, magari di primissima qualità, ma sempre molto unilaterale. E pensiamo che nel tempo presente sia molto più facile: tutte le fonti sono disponibili o pensiamo che lo siano. Invece c’è il vantaggio della maggiore documentazione, ma anche lo svantaggio del maggiore filtro, per cui molte verità restano sepolte. Non sappiamo chi ha ucciso Kennedy e chissà quando lo sapremo.
Da un lato c’è una “falsificazione involontaria”, data dal passare del tempo e dal corrompersi delle fonti. Dall’altro la “falsificazione volontaria”, cioè la deliberata manomissione delle fonti.
O anche l’occultamento. Perché non si riesce ad avere accesso agli archivi in maniera totale? Anche i più aperti e liberali, come sono gli archivi americani, non sono mai totali, perché c’è sempre una parte che il potere non vuole che si veda.
Però qualche volta il corso della storia aggira anche la manipolazione. Penso al romanzo “Vita e destino” di Vassilij Grossman di cui si cercò la distruzione totale ma che sopravvisse e ora si può leggere.
Questo è straordinario, ma è come il messaggio nella bottiglia.
Un po’ la censura ha funzionato. Il romanzo non è uscito al tempo in Unione Sovietica, ma a Losanna decenni dopo. E ora è disponibile la versione Adelphi.
Sì. In Italia il romanzo era già uscito per Jaka Book.
Non completissimo.
E’ vero, però ho fatto un raffronto accurato tra le due versioni e ho visto che sono quasi identiche.
In un suo articolo sul Corriere, lei ha scritto di Arturo Pérez Reverte. Che rapporto vede tra il giallo storico e una ricerca storica come la sua che ha il passo del giallo?
Devo riconoscere un debito intellettuale nei confronti di Pérez-Reverte. Nel suo romanzo secondo me meglio riuscito, “Il club Dumas”, racconta la storia di un libro sopravvissuto soltanto in tre copie. E lui racconta il perché. E’ un romanzo, naturalmente. Io in quel periodo stavo lavorando a “La biblioteca del patriarca”. Una storia (in questo caso vera, ndr) di libri censurati nella Francia del Seicento. E anche in quel caso c’erano tre copie intenzionalmente sopravvissute di un’edizione mutilata all’inizio di un’intera pagina considerata eretica. Il libro di Pérez-Reverte mi ha ispirato delle proposte di soluzione, che credo valide, della ragione per cui quelle tre copie si sono conservate.
Quando si propongono nuove ipotesi o nuove “verità”, se riguardano un tema di cui si pensava di conoscere già abbastanza – penso anche alle pagine del suo libro su Gramsci – si presta il fianco all’accusa di voler riaprire questioni già note alla ricerca di una lectio difficilior a tutti i costi. Lei come replica?
Le verità consolidate molto spesso sono in realtà frutto di un compromesso. Per venire al caso Gramsci di cui parlo ne “La storia falsa” è chiaro che c’è un problema drammatico. Perché quelle lettere? Perché Gramsci ne è rimasto così duramente colpito? Non si scappa. O l’autore di quelle lettere voleva fargli del male, oppure Gramsci era matto. Oppure c’è una terza via: non è che le lettere sono state ritoccate? La storiografia di sinistra, socialisti, comunisti o anche studiosi vicini ma non schierati, non ha mai preso in considerazione la terza possibilità che pure si presta a molte osservazioni valide e ci si è scannati con opposti argomenti. I socialisti dicevano che Grieco era il “killer”. I comunisti sostenevano che le lettere non avevano nessuna grave implicazione. E lasciavano dunque nell’ombra un giudizio su Gramsci fuori di testa. Era un compromesso, un “lasciamo perdere il problema”. Invece a me sembra che il compito dello storico sia quello di andare più a fondo.