Lo Zapaterismo minaccia la democrazia e la sopravvivenza della Spagna
12 Luglio 2008
Marcel Gauchet osserva, da tempo, che la democrazia sta esaurendo il suo progetto storico, la sua missione. O, meglio, è la sua missione a non essere più esprimibile in un linguaggio unitario, in un ordine del discorso capace di sintetizzare esperienze, interessi, valori e bisogni universali. La democrazia, divenendo l’orizzonte intrascendibile della modernità, ha perso smalto e fisionomia, è diventata un mantra da recitare ritualmente, una retorica pubblica. Fuori i mondi vitali, alla democrazia non può spettare altro che il ruolo di censore della presunta “intolleranza”, di apologeta del “pacifismo”, di critico sistematico della “globalizzazione”. E’ in questo contesto che Zapatero trova spazio per il suo proceduralismo mirato alla disgregazione della società spagnola.
Bonanate sull’Unità ha correttamente rilevato che la politica di Zapatero si occupa più delle “procedure” che dei “contenuti”, è questa la deriva postmoderna, in qualche modo, della politica. Il socialismo dei radical-libertari senza radici e senza metafisica influente, per dirla con l’epistemologia di Kuhn, è tutto qui: nel proceduralismo astratto. Forme e procedure, leggi e ordinamenti: così la società viene imbrigliata in un asfittico meccanismo formalistico e muore. Anzi, di più: muore la tradizione di un popolo, cioè l’anima di una società.
Bonanate definisce “statista” chi si occupa di questi importanti nodi della vita sociale, mentre chi si infila nel cul de sac delle intercettazioni e giù di lì è un politicante di quarto livello. Bene, valutiamo allora cosa significhi, nel caso zapateriano, essere “statista”. Significa, in primo luogo, tranciare via di netto la società e il popolo concreto, come portatore di una traduzione e di una cultura specifiche, sostituendo a questo combinato composto di interessi, valori e bisogni un’azione indistinta da parte dello Stato, mirata a disaggregare i punti vitali di un mondo. Abbattendo il senso di appartenenza ad una storia e ad una comunità nazionale, pur nella sua variegata fisionomia. Un’operazione di questo genere è tipica del totalitarismo giacobino e il giacobinismo è la chiave originaria di ogni totalitarismo, come colse Drieu
Secondo rilievo. Con il proceduralismo simil-kelseniano, che rende per intero la cifra della “democrazia in azione”, annota baldanzosamente Bonanate, siamo sull’orlo dell’abisso. In pieno nichilismo delle forme. In aperto relativismo. Basti leggere i capitoli centrali dell’opera di Kelsen dedicata alla democrazia. Una democrazia senza valori e senza fondamenti, esposta ai venti dell’opinione pubblica e retta da un bilanciamento di poteri distanti dal corpo vivente del popolo. Anche questo sta bene a Bonanate, esponente brillante del post-post-comunismo (ormai i “post” sono due): la tirannide dell’opinione pubblica. Sull’opinione pubblica e sulla sua cattiva metafisica, basterebbe rileggere l’opera di Habermas degli anni Sessanta – il che è tutto dire – e soprattutto Tocqueville, “La democrazia in America”.
Una democrazia ha bisogno, più che di proceduraalismo astratto, di checks and balances e, insieme, di valori ed ethos comunitario, in grado di rendere autentica l’autonomia dei singoli nel contesto di un senso di appartenenza storico e culturale. Una democrazia orizzonte astratto e ormai incomunicante, come quella di oggi, non si salva senza l’attrattiva etica e culturale di un’appartenenza, senza un indirizzo identitario inclusivo, ma, nel contempo, ben chiarito e vissuto. Senza sapere “chi” si è, non si può essere democratici, salvo piombare nel gorgo proceduralistico in cui tutte le vacche sono nere. Nell’indistinto zapateriano non ci sono più “padri” e “madri”, dunque figuriamoci se possono sopravvivere cittadini inscritti in una storia che li precede ed alla quale fanno deferente riferimento.
E’ la critica di Aznar a Zapatero: si parla di laicità, aborto, eutanasia e crocifissi nei luoghi pubblici per non parlare di realtà e di vita, di economia come fattore simbolico e materiale di un dissesto e di una possibile ripresa. Quando i totalitari laicisti parlano di “etica” e di “valori” – o, anche, di “Ideas”, con acronimi cervellotici – si può essere certi che lo fanno con il senso della realtà del personaggio di Clive Staples Lewis, il diavolo Berlicche: parlava di spirito e valori al malcapitato cristiano perché, a parlare di realtà, si finiva per scoprire altro. Qualcosa che si avvicina al mistero ed alla vita. Fattori non giudicabili dalle procedure dello Stato guidato dalla setta zapateriana.