L’obbligo dell’azione penale maschera la reponsabilità dei PM
21 Marzo 2008
In una campagna elettorale
densa di polemiche sull’originalità dei programmi di PD e PdL e di continue
rivendicazioni di primogenitura di idee e progetti di riforme e innovazioni,
non deve destare sorpresa che le proposte di politica giudiziaria dei due
principali schieramenti prendano le mosse da una considerazione comune.
Il sistema della Giustizia
italiana non funziona, è lento e costoso, lascia i cittadini insoddisfatti, li
espone ad insicurezza e suscita in loro un condiviso sentimento di sfiducia ed
è, dunque, naturale che sia Berlusconi che Veltroni si facciano promotori di un
cambiamento di rotta in ambito giudiziario.
Anche per ciò che riguarda la Giustizia, tuttavia, più
che sulle cure che i rispettivi leaders propongono e che, per molti versi,
finiscono per essere simili al pari della scontata diagnosi della malattia, è corretto calibrare il confronto tra i due
schieramenti sulle effettive prospettive di realizzazione di una riforma davvero
efficace.
Sul fronte della Giustizia
penale, da sempre in grado di stimolare l’attenzione dei politici più di quella
civile, che pure sembra versare in condizione addirittura di maggior sofferenza,
la questione è stata rilanciata dall’ultima uscita di Veltroni, che è
intervenuto sulla necessità di spezzare
il tabù dell’obbligatorietà dell’azione penale. Sono seguite le
precisazioni di altri esponenti del PD, specializzati in tema di Giustizia, che
hanno esplicitato l’affermazione di principio dell’ex sindaco di Roma,
palesando, però, tutti i limiti di una proposta incerta e figlia dei soliti
compromessi, che rischierebbe di sfociare in un sistema talmente balordo da far
rimpiangere addirittura quello pessimo in cui viviamo oggi.
I criteri di esercizio dell’azione
penale facoltativa dovrebbero essere individuati di concerto tra il CSM e i
vari Procuratori della Repubblica, ha spiegato Tenaglia, responsabile giustizia
del PD, e giustamente vi è stato, anche su L’Occidentale,
chi ha visto in questo progetto la definitiva involuzione della nostra
democrazia nella Repubblica delle Procure.
Occorre, tuttavia, precisare,
che l’accrescimento del potere, già smisurato e non soggetto ad alcun controllo,
di cui i PM godono in modo spesso personale e disinvolto, non discenderebbe
dalla mera eliminazione del connotato dell’obbligatorietà dall’esercizio
dell’azione penale, quanto piuttosto dalla creazione di un nuovo spazio di
egemonia delle Procure nella scelta dei criteri di priorità nell’avvio dei procedimenti.
E’ chiaro che assegnare un
compito del genere ad una parte del giudizio, come il rappresentante
dell’accusa, che peraltro già possiede prerogative e privilegi che la pongono
su un piano del tutto diverso rispetto al difensore dell’imputato,
significherebbe introdurre un ulteriore motivo di sperequazione nel processo. Al
tempo stesso, si altererebbero pesantemente anche gli equilibri all’interno del
CSM, sempre a vantaggio della magistratura inquirente, che diventerebbe
protagonista esclusiva di una decisione dal taglio decisamente politico, a
tutto discapito della magistratura giudicante, sempre più relegata ad un ruolo
di complemento.
Eppure proprio l’eliminazione
dell’obbligatorietà dell’azione penale potrebbe essere il miglior presupposto
di una buona riforma della Giustizia, se solo la si inquadrasse nell’ambito di
un progetto serio e di più ampio respiro, volto a sfociare nella realizzazione
della tanto agognata separazione della carriere.
Il paradosso e le ipocrisie sottese al
principio dell’obbligatorietà, del resto, hanno sempre creato distorsioni e
storture nel sistema giudiziario, mentre la sua cancellazione potrebbe essere
posta a base dell’introduzione nel nostro sistema di un elemento di cui è
sempre stato carente e che pure è del tutto imprescindibile: quello della
responsabilità del magistrato che procede.
E’ chiaro, infatti, che,
venendo meno l’obbligatorietà dell’azione penale, alla scelta dei reati da
perseguire in via prioritaria dovrebbe partecipare anche un organismo di raccordo
tra le Procure italiane, che sarebbe però chiamato poi a rispondere, da un
lato, dei criteri adottati, sotto il profilo sia dell’efficacia che
dell’uniformità della scelta, e, dall’altro, del generale funzionamento della
magistratura inquirente.
Con Giudici e PM finalmente
ricondotti a categorie distinte, che riflettano l’assoluta eterogeneità delle
rispettive funzioni, il processo penale ritroverebbe inoltre quell’equilibrio
assolutamente indispensabile affinché il sistema possa essere teso in modo
effettivo alla realizzazione della giustizia
I Pm verrebbero ad essere in
sostanza ricollocati nel sistema giudiziario italiano, un po’ più lontani da
Palazzo dei Marescialli, e, per questo, non più in grado di esercitare
pressioni su chi poi è chiamato a giudicare, e magari più vicini alle Questure,
per capire e coordinare meglio le indagini, senza perdersi in lungaggini
burocratiche.
Non è, di certo, con gli
strani compromessi del PD che la
Giustizia italiana verrà fuori dalla crisi in cui versa da
decenni. Piuttosto, la riforma del nostro sistema giudiziario può passare
attraverso il recupero, all’interno del Pdl, delle istanza di cui Forza Italia
si è fatta portatrice sin dalla sua nascita e che hanno a lungo rappresentato
la vera cifra dell’impegno politico di Silvio Berlusconi: per far funzionare il
processo occorre che al suo interno, nel rispetto di tempi ragionevoli di
durata, si coniughino alla perfezione garanzie e responsabilità.