Caro Direttore, mi scusi se approfitto dell’Occidentale ma dopo aver letto la messa domenicale di Eugenio Scalfari mi prudono le mani e scrivere resta la maniera migliore per non scheggiarmi lo smalto (seasonal manicure da Red Door, sulla Quinta Strada).
Avendo curato e affilato le unghie, i miei occhi felini si sono soffermati con la solita noia sulla firma del signor Scalfari. Solitamente, arrivo alla prima colonna e poi passo alla lettura della ben più intrigante Maureen Dowd, ma ieri una parola mi ha elettrizzato la morbida pelliccia: “prolasso”. Oibò, ho uno sbiadito ricordo dell’imbarazzante racconto di una mia amica lontana alle prese con un “prolasso uterino” e non escludo che qualcuno dei miei conoscenti si sia trovato alle prese con un ingombrante “prolasso rettale”, ma il “prolasso morale” m’era ignoto e, confesso, nel caso delle articolesse di Scalfari ho sempre pensato che si trattasse più di un caso d’urgenza minzionale, che mi dicono sia nota nelle caserme tipografiche con l’aulico termine tecnico di “pisciata”.
Perbacco, mi sbagliavo. Anche la tipografia di Repubblica evidentemente è qualcosa di moralmente superiore rispetto agli standard delle rotative. Bene, preso atto dello smacco scientifico, sono andata avanti come una lince nella lettura del Pezzo. E per una volta, da buona gatta, mi sono leccata i baffi: il promesso sposo (auguri!) Scalfari si riproponeva con un prodotto d’annata che non delibavamo da tempo: l’anonima messa all’indice di un giornalista reo di non condividere neanche un po’ il discorso di cui s’è togato il Paese dei Migliori, colpevole di non esser convinto che all’Italia serva ora e subito una rivoluzione giudiziaria e, soprattutto, perplesso sul fatto che decollare di netto il Cavaliere sia cosa buona e giusta.
Imputato Innominato, Antonio Polito, direttore del Riformista. Mi dicono sia un piccolo giornale, tuttavia prezioso per la circolazione di idee non del tutto bislacche, come Il Foglio di Giuliano Ferrara e il Suo Occidentale. Ho appreso che il Convenuto Senza Nome sarebbe colpevole di una nuova fattispecie di reato, il “prolasso morale”, e dunque automaticamente indegno di esser citato con il suo nome e cognome, – nero su bianco, come si usa anche negli approssimativi tribunali dittatoriali – ma degnissimo d’esser esposto al venticello sottile dell’accusa di manutengolo del regime.
Ora, caro direttore, come sa non frequento i giornalisti e la mia collaborazione con l’Occidentale è più che occasionale, è unilaterale. Fondamentalmente i giornalisti viventi mi annoiano perché molto spesso raccontano ciò che non conoscono e detengono con gli economisti il raro primato di esser tra coloro che fanno previsioni su ciò che è già accaduto. Tuttavia, il direttore di un piccolo giornale che viene flagellato con la cancellazione dell’Identità suscita la mia curiosità, mette in moto inaspettatamente il mio sesto senso e mi induce a qualche lievissima riflessione sul fragore del silenzio obliquo e sul destino delle parole che restano lettera morta. Il silenzio è quello che riguarda il caso dell’innominato Polito, la lettera morta è l’ombra che incombe sul presidente della repubblica.
Non farò alcun ricorso storico né pescherò qua e là dall’armadio dei ricordi – in questo sono discepola di Ennio Flaiano che soleva dire “se lei si spiega con un esempio, io non ci capisco più niente” – ma certo non si può tacere che questo metodo ha una certa parentela con quello che avveniva nelle repubbliche democratiche oltre Cortina (quella di ferro, non quella dove ho scoperto non si va più in villeggiatura ma a tenere dibattiti estivi).
Non mi sorprendono il maccartismo democrat, né il silenzio tombale che lo accompagna, mi preoccupa invece la solitudine del presidente Giorgio Napolitano. E’ un uomo dotato di naturale eleganza – ho ammirato via satellite il Panama che indossava, perfetto – ultimo erede di una sartoriale nobiltà napoletana scaduta con l’era Bassolino a volgare cronaca caudillesca: Insomma un signore che con il suo inglese sarebbe più a suo agio in club della City e non nel turpiloquio del Belpaese. Il Presidente è al vertice del Consiglio superiore della magistratura e nessuno in quel collegio gli dà ascolto. Todos caballeros. Gli editorialisti dei giornali gli strattonano la cravatta (spero almeno sia di Marinella). E lui urla nel silenzio. E’ questo il segno inquietante della crisi italiana: Napolitano è un gentleman a bordo pista, con la voce roca strilla ai fantini che non bisogna drogare i cavalli, ma nemmeno le dame di corte con i cappelli da Ascot di provincia e il bicchiere di plastica in mano gli danno ascolto. Lo so, caro Direttore, con questa metafora lei mi dirà che ho tradito il dettato di Flaiano, ma alla mia età ho imparato che più della fedeltà conta la lealtà. Vale per me e penso dovrebbero farne tesoro anche le ben più venerande Istituzioni.