L’Occidentale non è il posto dove fare il tifo per Breivik

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L’Occidentale non è il posto dove fare il tifo per Breivik

28 Luglio 2011

 

Nei giorni successivi gli attentati di Anders Breivik in Norvegia, l’Occidentale è divenuto destinatario di commenti da parte dei lettori che mi hanno sorpreso e in qualche caso allarmato.Com’è sempre stato costume di questo giornale abbiamo pubblicato (quasi) tutto quello che ci è giunto, perché ci pare utile che anche le idee più corrotte affiorino in superficie piuttosto che marcire nei fondali.

Resta però una sensazione poco rassicurante, come se molti avessero individuato nell’Occidentale e nella sua posizione culturale e politica, un luogo accogliente dove depositare idee e opinioni che al contrario maneggiamo con molta cautela e qualche sospetto.

Ci deve quindi essere un malinteso, qualcosa che non siamo stati capaci di spiegare fino in fondo, un equivoco forse legato alla nostra stessa testata che a questo punto deve essere chiarito.

Il fatto che questo giornale si chiami l’Occidentale, che spesso guardi al multiculturalismo come una minaccia culturale e civile, e che sia impegnato nel segnalare le molte avvisaglie del fatto che almeno un parte del mondo islamico abbia dichiarato guerra all’Occidente, può aver indotti molti a crederci qualcos’altro da quello che siamo.

Da questi parti non alberga nessuna idea di suprematismo bianco e la nostra critica al multiculturalismo non ha alcuna traccia razziale o etnica; la nostra preoccupazione circa l’espansionismo islamico in Europa non include l’idea sbagliata oltre che impossibile di richiuderci in una fortezza di purezza e privilegio.

E’ tutt’altro quello che ci preme e ci motiva nel lavoro quotidiano di questo giornale e se volete anche nell’azione connessa della Fondazione Magna Carta.

Il relativismo, e il suo sottoprodotto empirico, il multiculti,   ci spaventa, prima ancora che per la sua inefficacia nella gestione delle diversità, per il fatto di essere divenuto una ideologia dominante che in questo senso include il rischio di tralignare in una forma socialmente accettabile di totalitarismo. Si tratta di una critica liberale ad una sorta di nuova “confessione” che sempre meno accetta obiezioni o devianze. Lo segnalava già il cardinale Ratzinger in una delle sue lettere a Marcello Pera contenute nel libro “Senza Radici”: “Il relativismo si innalza più in alto di tutte le grandi vette del pensiero finora raggiunte; soltanto così si dovrebbe ancora pensare e parlare se si vuole essere all’altezza del presente. Mentre la fedeltà ai valori tradizionali e alle conoscenze che li sostengono viene bollata come intolleranza e lo standard relativistico viene elevato a obbligo”. E’ questa la critica fondamentale che muove, molto più di una supposta frenesia a volerci definire “migliori” di altri. E anche su questo versante ci preoccupa non tanto dimostrare che la cultura occidentale e i valori che racchiude sono in qualche senso “migliori” e più degni di rispetto e tutela (anche se avremmo molti argomenti per farlo), quanto semmai sventare la dilagante convinzione che essi siano “peggiori” di altri, o comunque un rimasuglio di colpe e di errori del tutto trascurabile e inadatto ai tempi moderni. Anche qui è Ratzinger che va ricordato quando parla de “l’odio di sé dell’Occidente”.

Se non si spazzano via questi presupposti, ogni rapporto con l’Altro, anche il meglio intenzionato, equivale a una resa. Se poi le intenzioni sono le peggiori, l’invasione, la conquista, allora quell’odio di sè equivale al suicidio. In nessun modo dunque pensiamo che il futuro dell’Europa consista nella chiusura e nel rifiuto. E’ vero invece che l’Europa può salvarsi dal declino e dalla morte vaticinata da Spengler, se riconosce la sua identità e ne fa la pietra di paragone per l’accoglienza e la pietra angolare per la sua nuova costruzione. Neppure un baluginio di dialogo è possibile se prima non sappiamo chi siamo e cosa vogliamo. Se ogni argomento è valido, se ogni valore è equivalente, non ci saranno più argomenti e non ci saranno più valori. Noi siamo indeffettibilmente a difesa della nostra la società aperta, ma sappiano anche che resterà aperta finche sarà nostra.

Quella dell’indentità, contrariamente a quanto pensano i multicutluralisti nostrani, non è una battaglia contro gli altri, ma una battaglia contro noi stessi per come siamo diventati, contro il nostro disamore, la nostra noia, la nostra arrendevolezza. Dobbiamo combatterla, altrimenti non un grido, e neppure una risata ma uno sbadiglio ci seppellirà.