L’Occidente ha sottostimato Assad e adesso i siriani ne pagano il prezzo
23 Marzo 2012
E’ trascorso più di un anno dallo scoppio delle prime manifestazioni di protesta, eppure, il regime di Bashar al Assad, in controtendenza rispetto alla relativa rapidità di capitolazione delle altre decennali dittature travolte dalle rivolte arabe, non mostra (ancora) segni di cedimento. Al contrario, in Siria, in controtendenza rispetto al paradigma rivoluzionario fino a questo momento regolarmente sperimentato in Tunisia, Egitto e Libia, sono le forze fedeli a un “governo” coeso a mantenere un indiscusso vantaggio su un’opposizione divisa, disorganizzata e confusa.
Il caso siriano presenta, insomma, elementi di rottura rispetto alle esperienze delle vicine tirannie recentemente ‘decapitate’. Elementi che lasciano supporre che l’esito della recrudescenza cui si assiste ininterrottamente dal 15 marzo dello scorso anno sia tutt’altro che scontato. Del resto, se è vero che non cessano gli scontri tra oppositori e forze leali al Presidente, è tuttavia innegabile altresì che il controllo del territorio nazionale non sia, di fatto, mai sfuggito di mano a Damasco. Come conferma, da ultimo, il parziale recupero da parte dell’esercito regolare delle regioni di Homs e Idlib. L’ondata rivoluzionaria partita dalla Tunisia sembra, dunque, essersi cristallizzata in Siria, e ciò al caro prezzo di una sanguinosa guerra civile la cui fine appare irreparabilmente difficile e lontana.
Coloro che prevedevano la caduta di Bashar al Assad, e un nuovo Medioriente, entro la fine di dicembre dello scorso anno si sbagliavano. O forse sottovalutavano alcuni fondamentali fattori, che hanno invece significato la straordinaria e tenace sopravvivenza del regime. A favore di questo ha senza dubbio avuto un ruolo di primo piano l’efficiente apparato governativo e istituzionale di cui può disporre il presidente Assad. Vale a dire, uno strumento accentrato, ben organizzato e affidabile, in quanto dominato da persone di sicura fede alawita, di cui fa parte, oltre alla dinastia Assad, proprio quel ristrettissimo 12% di popolazione (minoranza sciita in un paese a maggioranza sunnita) rigorosamente assegnato alle più alte cariche politiche o militari.
Il vertice del potere reale è, in pratica, gestito da una dozzina di individui, membri della famiglia reggente o dei clan alleati dei Makhluf e degli Shalish, o comunque inevitabilmente legati alla sorte degli Assad. In questo senso, la sopravvivenza del regime equivale alla loro salvezza individuale. Assioma questo che a sua volta si traduce in indiscussa coesione, fedeltà e obbedienza del nucleo dirigenziale. Stessa ratio per l’esercito, altra carta dalla parte di al Assad. Le forze armate governative siriane, quantificabili in un numero superiore alle 300.000 unità – cui vanno peraltro aggiunte quelle di sicurezza e le milizie irregolari (shabbiha) -, sono tradizionalmente fedeli al regime. Del resto, generali e ufficiali sono tutti prossimi parenti o alleati della famiglia del Presidente.
Su tutti gli altri membri gravano altrettanto stretti vincoli di natura religiosa o più semplicemente clientelare. Un rischio defezione, se esiste per i ranghi di più basso livello, è comunque ridimensionato dalla schiacciante superiorità numerica e organizzativa dell’apparato militare facente capo al regime. Formato nella migliore tradizione coloniale francese e alimentato dalla costante fornitura di armi e mezzi blindati di fabbricazione russa, l’esercito regolare ha gioco facile sull’Esercito Libero (Esl), un gruppo improvvisato che conta invece circa 30.000 persone male equipaggiate e scarsamente addestrate, tra cui i pochi (e improduttivi) disertori e i civili sollevatisi alla causa della rivolta. La debole resistenza armata sconta in generale il problema della frammentazione del fronte di opposizione.
Esuli, militanti, esponenti del movimento non violento e chiunque altro si unisca alla lotta contro al Assad subisce il peso della ostilità tra forze profondamente divise, più che da ragioni ideologiche, da motivazioni religiose ed etniche in un paese con il 75% della popolazione sunnita governato per decenni da una dinastia appartenente a una setta minoritaria del (minoritario) movimento sciita. Senza tralasciare le ripercussioni delle tensioni tra sciiti e sunniti sulle già difficili relazioni tra Siria, Iran, Arabia Saudita e Paesi del Golfo Persico in un quadro regionale piuttosto complesso. Da ultimo, è proprio la dimensione locale e internazionale a giocare oggi a favore di al Assad. Per decenni, il paese è stato il pilastro di un certo prevedibile e accettabile “ordine” nell’area mediorientale.
Ha consentito a Russia e Iran di estendere la propria rispettiva influenza ma mai fino al punto di intaccare i confini della sicurezza di Israele (e di Washington). E ciò, nonostante l’indiretto supporto siriano a Hezbollah in Libano e Hamas in Palestina. La Siria ha insomma in qualche modo assicurato un intricato bilanciamento di interessi contrapposti che rischiano adesso di essere messi in discussione da un repentino cambiamento di regime. Cambiamento che potrebbe anche non giovare a chi oggi lo sostiene. Lo sa bene Israele, ed è per questo che pur restando sostanzialmente contrario ad al Assad, è altrettanto preoccupato di chi possa succedergli domani.
Per la Russia, la caduta del regime in Siria significherebbe la perdita di un prezioso alleato, che gli concede altresì una base militare sul proprio territorio, e di un ottimo cliente. La Cina e la Turchia sembrano ancora non aver ben capito come i propri interessi potranno essere difesi da chi eventualmente potrebbe prendere il posto del Presidente. E per le stesse motivazioni anche gli Stati Uniti hanno finora parlato molto ma agito poco. Intanto però il numero delle vittime continua inesorabilmente ad aumentare. Siamo già oltre gli 8.000 morti e c’è da temere che la brutalità del regime non si lascerà intimidire da questi dati.