L’Occidente non ha interesse a dire addio ai paradisi fiscali
08 Aprile 2009
Caro Direttore,
“nessuna persona sensata, potendo scegliere, preferirebbe vivere in un inferno anziché in un paradiso fiscale!” Questa esclamazione di Antonio Martino non è che uno dei numerosi colpi a effetto nell’intenso dibattito su segreto bancario e “paradisi fiscali” degli ultimi tempi. Una partita in cui i principali Stati occidentali e le loro controparti si confrontano senza esclusione di colpi. Diverse e numerose le visuali del campo di gioco.
Una prima angolatura è quella dei privati, per molti dei quali l’evasione e l’occultamento di denaro rappresenta una valvola di sicurezza che impedisce che la tassazione diventi più oppressiva di quanto già non sia. I paradisi fiscali offrono questa possibilità. Il che, ovviamente, non significa che le loro attività siano giuste, ma di certo essi svolgono un’utile funzione ad argine della valanga democratica.
Lo Stato ha sempre tutelato la proprietà dei propri cittadini contro tutte le minacce, tranne quelle poste dallo Stato stesso. Il potere di operare prelievi è infatti una delle prerogative degli Stati, che in passato peraltro usavano con discernimento maggiore di quanto non avvenga oggi.
Una seconda visuale è quella dei leader politici occidentali, per i quali la crisi economico-finanziario e il crescente scontento popolare offrono l’occasione di brandire la clava morale e calarla sul capo di vicini di casa spesso fastidiosi. Cosa che in casa UE hanno fatto soprattutto Francia e Germania, facendosi alfieri di una delle più aspre campagne politiche ai danni non solo di Liechtenstein, Svizzera, Andorra, ecc. ma anche di vicini di casa UE come Lussemburgo e Austria. La crisi, insomma, è per Francia e Germania anche il pretesto per togliersi sassolini dalle scarpe, e gettare sabbia negli ingranaggi di pericolosi concorrenti interni.
Una ulteriore prospettiva, meno ortodossa e più cinica, è quella dettata dalla “realpolitik”. E’ una lettura che esclude grandi svolte in materia di “paradisi” sulla base di un semplice dato di fatto: gli stessi Paesi che strillano contro i “paradisi” hanno spesso bisogno dei “paradisi” e vi fanno ricorso. Seguendo questo filone, senza esagerare con le dietrologie, c’è da dubitare della reale portata dei provvedimenti finora adottati – le liste nere dell’OCSE, la stretta di vite sulle convenzioni bilaterali, il moltiplicarsi di richieste di cooperazione fiscale e finanziaria.
Per quanto i paradisi fiscali e finanziari rappresentino una spina nel fianco per molti governi occidentali, non c’è dubbio infatti, che spesso i paradisi assolvano una funzione anche per i governi.
Operazioni coperte, riservate o molto particolari non possono per loro natura essere effettuate con canali ufficiali. Gli ordinamenti “opachi”, dunque, costituiscono una inevitabile valvola di sfogo per tutto ciò che non si può finanziare alla luce del sole.
Per quanto possa fare strano ai più, esiste una vera e propria “geopolitica dei paradisi”: ci sono paradisi “buoni” e paradisi “cattivi”. Al think tank Stratfor, non sono per esempio sfuggiti la difesa a oltranza che la Cina sta facendo di Hong Kong e Macao, e gli effetti potenziali di questa linea diplomatica.
La scenarizzazione, in questo caso, non è particolarmente complessa: il blocco occidentale mette fuori uso i propri paradisi fiscali e finanziari, rimuovendo il segreto bancario e eliminando aree “grigie”. Restano solo i “paradisi” orientali, verso cui si indirizzano i capitali pur di non finire sotto i radar dell’ufficialità. Quanto è verosimile questo scenario? Poco, a causa di un nodo di fondo, che un intelligente articolo di Asia Times di qualche settimana fa coglie in pieno. I “paradisi” orientali sono controllati – sottotraccia – da Pechino. Ora, se quelli asiatici finissero per essere gli unici “paradisi” rimasti sulla terra, i cinesi finirebbero per avere accesso a molti segreti occidentali.
L’Occidente potrebbe accettare ciò? No: il prezzo da pagare sarebbe troppo alto. Ragionando per sillogismi, dunque, è chiaro che, pur comprimendone qualche libertà, le potenze occidentali non potranno rinunciare del tutto ai propri “paradisi”. I primi a realizzarlo sono gli USA, dalla cui adesione, tra l’altro, dipende la riuscita del “legal standard”…