L’Occidente si ritira e l’Iran avanza su Kabul e Islamabad
02 Luglio 2011
L’attentato di giovedì all’Intercontinental Hotel ha gettato una luce oscura sul futuro dell’Afghanistan. A pochi giorni dal tanto discusso intervento del Presidente Obama, che ha annunciato l’inizio del ritiro dei militari americani a partire dalla prossima settimana, gli afghani e tutta la comunità internazionale si interrogano sulla capacità delle forze armate locali di farsi carico della sicurezza del paese, e non potrebbe essere diversamente visti i racconti dei testimoni che hanno riportato scene a dir poco “fantozziane”, con poliziotti afghani che inciampano sui tubi dell’irrigazione, altri che scappano impauriti e addirittura si chiudono negli sgabuzzini, altri ancora che si rifiutano di sparare per paura della rappresaglia.
I dubbi dell’opinione pubblica possono essere sintetizzati dalle parole di Maulavi Mohammadullah Rusgi, portavoce del “Takhar Provincial Council”, che presente nell’albergo al momento dell’attacco, ha dichiarato al New York Times: “Discutiamo della transizione della sicurezza del Paese alle forze di polizia afghana, che però dimostrano di non essere ancora pronte a farsene carico. Se non riescono a proteggere poche persone in un hotel come possiamo pensare che riescano a proteggere un’intera nazione?”. La NATO, intervenuta per risolvere la situazione, ha successivamente elogiato l’operato della polizia locale, ma senza particolare convinzione. La popolazione ora guarda al futuro con un certo timore, convinta che quando le forze occidentali lasceranno Kabul la sicurezza non sarà più garantita. E’ chiaramente su questo dubbio, su questa paura, che fanno affidamento i talebani, e anche per questo il Presidente Karzai ha voluto rassicurare gli afghani elogiando l’operato della polizia e dell’esercito (senza nemmeno menzionare l’intervento ISAF) e dichiarando che "quest’attacco non impedirà di rispettare i tempi previsti per la transizione completa della sicurezza agli afghani”.
Ma la cosa che più dovrebbe far riflettere è che l’idea in base alla quale per sconfiggere i talebani ed al-Qaeda sono sufficienti solo azioni di controterrorismo, è basata su assunti sbagliati. Come sottolineano Bill Roggio e Thomas Joscelyn su The Weekly Standard: “La decisione del Presidente Obama di ridurre le forze americane in Afghanistan è basata sulla visione del vicepresidente Biden, convinto che raid mirati, come quello che ha portato all’uccisione di Osama Bin Laden, bastino a garantire la sicurezza nel paese e, di conseguenza, quella dell’Occidente. Politicamente è una teoria molto conveniente, peccato però che sia completamente sbagliata”. Anche perché la minaccia talebana e quella di al-Qaeda non sono molto diverse tra loro, ed è molto difficile capire dove finisce la prima e dove inizia la seconda. Non solo, occorre anche considerare che al-Qaeda non è un gruppo unico ma un network, composto da diversi gruppi tutti fondamentalmente indipendenti, un’idra dalle molte teste difficile da sconfiggere. Molto prima degli attacchi dell’11 settembre, Bin Laden fondò la 55° Brigata in cui si riunirono combattenti talebani e terroristi di al-Qaeda e quando fu sconfitta dalle forze alleate molti di quei terroristi si riunirono sotto la sigla di “Lashkar al Zil”. E questo è solo un esempio, ma come esso se ne potrebbero fare molti altri per dimostrare la capacità di al-Qaeda di proliferare. E’ vero che il suo quartier generale è ormai da tempo il Pakistan, ma questo non significa che la minaccia qaedista sia cancellata per sempre dal suolo afghano, ed un ritiro affrettato potrebbe rendere più difficile la sua sconfitta. Perché per questo tipo di compito occorre il controllo del territorio e l’appoggio della popolazione, due cose che potrebbero venire meno se la sicurezza non potrà essere più garantita.
D’altra parte, come ha scritto Audrey Kurth Cronin, professoressa presso lo U.S. National War College, in un interessante libro How Terrorism Ends “non basta la semplice uccisione o cattura del leader di un gruppo terroristico per decretarne l’implosione (salvo nei casi di gruppi fortemente e rigidamente gerarchizzati, come lo Shining Path peruviano, o il PKK turco). L’inizio della sconfitta si ha quando gli insorgenti perdono l’appoggio della popolazione, e ciò avviene soprattutto quando i terroristi sono obbligati ad attaccare bersagli civili, a ciò costretti dal fatto che quelli militari sono troppo ben protetti”. Esattamente quello che è avvenuto nell’ultimo anno in Afghanistan, grazie alla presenza massiccia delle forze della NATO a protezione del territorio. Anche per questo sarebbe bene riconsiderare attentamente la strategia del ritiro, perché il rischio è che una volta che le truppe non ci saranno più gli obiettivi saranno nuovamente alla portata dei terroristi.
Non a caso il governo afghano, di fronte alla prospettiva di ritiro occidentale, comincia a guardarsi intorno. Abbandonato dagli “amici” Karzai si sta rivolgendo altrove per cercare sostegno, ed in particolare sta rivolgendo uno sguardo al vicino Iran. La foto di Karzai, Zardari e Ahmadinejad riuniti a Teheran per un summit sul terrorismo dovrebbe essere il maggiore segnale di allarme per l’Occidente, perché abbandonare Kabul all’influenza di Teheran equivale a lasciare l’agnello in balia del lupo.
“La pace e la stabilità del nostro paese sono seriamente minacciate”, ha detto il presidente afghano in conferenza stampa, ma forse più che alla platea avrebbe fatto meglio a rivolgersi direttamente ai suoi interlocutori che ad oggi sono proprio i maggiori sostenitori del terrorismo internazionale.