L’omaggio di Ledeen a John Bolton

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L’omaggio di Ledeen a John Bolton

16 Novembre 2007

Imbavagliati come siamo spesso dalla censura imposta dal politicamente corretto, leggere parole tanto limpide come quelle di John Bolton è veramente una liberazione. Surrender is not an option non è un libro breve, ma le parole di troppo sono ridotte al minimo e il lettore non potrà nutrire alcun dubbio sul pensiero e le convinzioni dell’autore, entrambi chiare e nobili.  Si prenda la Corea del Nord, ad esempio, una questione che ha coinvolto Bolton in prima persona per molti anni: “Come gli italiani con Mussolini e i rumeni con Ceausescu, un giorno il popolo nordcoreano avrà l’opportunità di decretare le sorti di Kim Jong-il. La sua morte sarà cruenta ed infame, come lo sono la sua vita e il suo regime, e sarà esattamente ciò che merita”.

O si prenda ancora il caso dell’Iran, che ora domina le prime pagine dei giornali come ha dominato la maggior parte del tempo passato da Bolton alle Nazioni Unite e al Dipartimento di Stato: “Il fatto è che l’Iran non abbandonerà mai volontariamente il suo programma nucleare, e che una strategia politica basata sul presupposto contrario non è solo deludente ma pericolosa. Traccerebbe la strada verso l’olocausto nucleare”.

Queste due citazioni bastano a dare l’idea del libro di Bolton nel suo complesso, un lavoro sincero, raffinato e ricercatamente arguto, saggio e straordinariamente deprimente. Bolton dipinge un brutto quadro, in cui le principali istituzioni internazionali – dal Dipartimento di Stato ai ministri degli Esteri europei, dalle nostre costosissime e prestigiosissime università alle Nazioni Unite – sono del tutto incapaci di fare i conti con le grandi %0Aquestioni del nostro tempo. Le Nazioni Unite, dice Bolton, non possono affrontare con efficacia né “le problematiche maggiormente complesse che presentano rischi elevatissimi”, né, all’opposta estremità, quelle “di più basso profilo, con rischi inferiori”, anche quando – come nel caso del Darfur – la maggioranza del Consiglio di Sicurezza e dell’Assemblea Generale sembra voler fare qualcosa di utile. Così, commenta ironicamente, “non c’è spazio per l’ottimismo né per l’immediato né tanto meno per il futuro”.

La gran parte dei nostri leader si amalgama perfettamente allo sfondo nero e alle tristi figure di tale rappresentazione della realtà. La maggioranza dei libri che circolano a Washington ha a che fare con il gossip, ma Surrender centra poco con le vicende personali delle persone che vengono menzionate: si concentra piuttosto sulle idee, sulle strategie da seguire e, inevitabilmente, sulle manovre burocratiche da mettere in atto per realizzare i propri obiettivi. Per questo si troverà poco sulle eccentricità di quanti con John Bolton hanno lavorato alle Nazioni Unite  e molto, invece, si può apprendere su come questi avanzavano le loro istanze. Bolton era spesso in disaccordo con Colin Powell e il suo vice, Richard Harmitage, ma nutriva una grande ammirazione per il profondo rapporto che li univa, che considerava unico ed efficace. Bolton era spesso in disaccordo con il segretario di Stato, Condoleezza Rice, ma di lei ammirava e rispettava la stretta vicinanza al presidente Bush. Uno dei racconti più interessanti contenuti nel libro, è sui commenti sessisti di Powell nei confronti della Rice, che secondo l’ex generale tendeva a farsi guidare più dagli “ormoni” che dal cervello. E Bolton poi descrive molto bene la caccia serrata di Powell e Harmitage a chiunque, all’interno del “sistema”, osasse criticarli sui media.  

Qualcuno rimarrà annoiato dai dettagli riportati da Bolton circa le battaglie burocratiche sia con i colleghi dell’amministrazione che con i leader del Congresso e del Senato. Ma è tale ricchezza d’informazioni a dimostrare come ormai ci siamo maledettamente perduti, e ad aprire la strada a possibili miglioramenti nel modo in cui dovremmo proteggere e rivendicare i nostri interessi nazionali. Caso dopo caso,  ci racconta apertamente come le intenzioni chiaramente espresse dal presidente siano state spesso disattese o sabotate da una burocrazia che si opponeva a lui e ai suoi incaricati di fiducia. Ancor peggio, le figure davvero fidate, quelle su cui ogni presidente deve fare affidamento, sono finite il più delle volte nelle grinfie dei funzionari e sono passate dall’altra parte. L’andamento dei tre principali dossier su cui Bolton ha lavorato – Nord Corea, Iran e il conflitto arabo-israeliano – ne sono la prova provata.

Infine, Bolton lancia un appello per una drastica riforma delle Nazioni Unite e del governo americano. Per l’Onu, propone l’adozione di un sistema di contribuzione finanziaria volontaria, che paragona al funzionamento del libero mercato. Bolton vuole che le Nazioni Unite non emettano solo fatture destinate agli stati membri, ma vuole che guadagnino denaro. Rimarca che gli stati membri devono essere liberi di dare finanziamenti a organizzazioni non appartenenti alle Nazioni Unite, a organizzazioni non governative e a organizzazioni che dimostrano di saper fare meglio dei governi. Bolton pensa che sia l’unico maniera per far funzionare bene l’Onu –  e sono certo che ha ragione, per quanto mi chiedo se esiste realmente un modo per riformare quella che, prove alla mano, è la più grande organizzazione criminale del mondo.

Per il governo americano, Bolton parla di “rivoluzione culturale”. Bolton è un realista, nella migliore tradizione del termine, e sa che questo obiettivo non potrà essere raggiunto in tempi rapidi. La rivoluzione deve disfarsi della cultura dominante, per la quale i burocrati impongono le proprie preferenze politiche su quelli dei leader legittimamente eletti. I “professionisti” del Dipartimento di Stato (e, aggiungerei io, della comunità d’intelligence) resistono con forza alle politiche con cui si trovano in disaccordo, quando il nostro sistema sembra richiedere l’opposto: i professionisti hanno messo il proprio talento al servizio  di politiche lontane dalla Casa Bianca. Bolton, allora, propone quello che può essere chiamato uno sforzo di “rieducazione nazionale”, spostando i burocrati nel settore privato – nel business vero ad esempio – per imparare a realizzare le idee che solitamente osteggiano. Bolton avrebbe potuto anche aggiungere un programma di visite alle Forze Armate, simile al servizio militare nazionale che un tempo ha forgiato le menti e i cuori delle nostre più grandi generazioni, e che potrebbe prevenire patetiche messe in scene come quelle cui abbiamo assistito di recente al Foggy Bottom, con il personale impegnato all’estero che si è ribellato all’idea di perdere la vita al servizio del proprio paese.

Nelle battute finali, Bolton promette, invece,  che  per il suo paese continuerà a combattere, e questa è certamente una buona notizia. John Bolton è un uomo raro, come raro è questo libro: dovrebbe essere sul tavolo di chiunque voglia comprendere i mali del nostro tempo e combatte per la causa comune.  

© New York Sun


Michael A. Ledeen è Freedom Scholar all’American Enterprise Institute

John Bolton, Surrender is not an option. Defending America at the United Nations and Abroad,  Threshold Editions/Simon and Schuster, New York, November 2007, 488 pages, $27