L’ombra del politicamente corretto sugli atleti inginocchiati contro Trump

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L’ombra del politicamente corretto sugli atleti inginocchiati contro Trump

06 Ottobre 2017

Abbiamo aspettato un po’ a raccontare la storia del presidente Trump che manda al diavolo le star dello sport americano (e della musica leggera) perché non cantano l’inno nazionale e si inginocchiano per protesta contro il razzismo. Abbiamo aspettato perché sapevamo che anche stavolta i giornaloni italiani ci avrebbero dato dentro, dipingendo questa storia come l’ennesimo atto di ribellione contro il Don. Tramontato il Russiagate (lo scandalo sulle presunte intrusioni russe nella vita politica americana) e passata la paura dei “suprematisti bianchi” (in realtà dopo la strage di Las Vegas gli americani dovrebbero preoccuparsi dei tipi alla Unabomber, il professore pazzo che inviava pacchi bomba per posta), che c’è di meglio di tornare a dare del razzista a Donald Trump perché si rifiuta di invitare alla Casa Bianca gli atleti che non cantano l’inno!

Il fatto è che anche stavolta John e Jane Doe, gli americani medi, l’uomo e la donna della strada, stanno con Trump più che con i sedicenti antirazzisti. Negli Usa mancare di rispetto a “The Star-Spangled Banner”, l’inno nazionale, è un vero e proprio delitto, nel Paese dove le bandiere sventolando orgogliosamente nel patio di casa. Così anche stavolta i nostri giornaloni hanno lanciato la pietra nascondendo la mano, dimenticandosi cioè di raccontare com’è andata a finire la storia degli atleti inginocchiati. Un’altra di quelle storie che rischiano di trasformarsi in un boomerang per chi pensava di usarle contro Trump. Storia che per ricordarla tutta inizia lo scorso anno quando Colin Kaepernick, il 49enne quarterback del San Francisco, capigliatura afro e genitori adottivi bianchi, non si alza in panchina quando suona l’inno. Nessuno se ne sarebbe accorto se un tizio, non si sa bene chi e perché lo abbia fatto, ma così raccontano le cronache, fotografa l’atleta e posta su Instagram l’immagine dello sportivo seduto in ostinato silenzio.

Da quel momento Kaepernick è uscito allo scoperto e ha ripetuto più volte il suo gesto in modo sempre più plateale, ma intendiamoci, la cosa non sarebbe diventata un tormentone planetario se Donald Trump non avesse preso a male parole su Twitter gli sportivi che, imitando Colin, si inginocchiano e non cantano l’inno. Di nuovo tutti contro Trump, rievocando gli atleti neri che alle Olimpiadi del ’68 alzarono i pugni chiusi al cielo, ma il problema, per il Don, non è il razzismo, il problema è che tu sportivo o artista miliardario non ti degni di cantare l’inno, e se non lo fai vuol dire che hai un problema con la nostra democrazia e con la tradizione nazionale. Si potrebbe dire che sia stato proprio Trump ad alzare volutamente il livello dello scontro per ribellarsi, ancora una volta, alle manette striscianti del politicamente corretto.

Trump vuole cambiare il clima culturale che si respira negli Usa e per farlo è disposto anche a sfidare i big dello sport inginocchiati. Morale? Gli spettatori delle partite sono calati bruscamente dopo che gli atleti hanno solidarizzato con Kaepernick, quindi il presidente aveva ragione a non invitare gli sportivi alla Casa Bianca. I grandi network, la NFL e le leghe del mondo dello sport Usa adesso sembrano ondeggiare, indecise se richiamare all’ordine gli atleti o smetterla di far cantare l’inno prima delle partite perché, bontà loro, sarebbe diventato troppo divisivo (sic). Una cosa è certa: anche questa vicenda è la spia di un conflitto culturale in corso, lo scontro tra globalisti e antiglobalisti, tra l’ideologia del politicamente corretto che mira a indebolire ogni senso identitario, compresa la dimensione simbolica, patriottica, degli inni e delle bandiere, e chi, come Trump, non si piega al pensiero unico.