L’ombra dell’Iri sull’F2I
18 Ottobre 2007
Da qualche tempo a questa parte,
il termine “infrastrutturale” ha ricominciato a circolare con notevole frequenza
nell’informazione pubblica: con tutte quelle “t” e quelle “r”, è un fruscìo
costante. E’ “infrastrutturale” la Torino-Lione, la
questione Alitalia, l’epopea dello stretto di Messina, ma anche le concessioni
autostradali e lo scorporo delle reti Wind, Telecom e Vodafone. A ruota, il
nodo Malpensa, la vertenza Fiumicino, la Salerno-Reggio
Calabria e chi più ne ha più ne metta, in un caleidoscopico
viaggio su e giù, destra e sinistra attraverso l’Italia: ormai l’atmosfera è “infrastrutturalizzante”.
Vi contribuiscono a vario titolo
anche le lettere ai giornali, come quella a Libero Mercato del 12 ottobre
scorso di Giuseppe Vatinno, consulente dipietrista del Ministero per le
Infrastrutture, dove si auspica la giusta
miscela tra efficienza liberomercatista e servizio pubblico.
Ebbene, in mezzo a tutto questo
gran parlare di infrastrutture, sui giornali fanno capolino, di tanto in tanto,
le interviste a Vito Gamberale, il manager alla testa di F2I, con frasi
rassicuranti sul ruolo dello Stato (tramite la Cassa Depositi e Prestiti) nel
nuovo fondo dedicato. Dedicato a che? Manco a dirlo, proprio alle
infrastrutture.
Gamberale è uomo di mondo, sa che
l’opinione pubblica va “preparata”, e, quindi, è bene che l’orchestra mediatica
faccia il suo lavoro. Ché, anche se l’Italia non è gli Stati Uniti e nemmeno
l’Inghilterra, l’intervento statale in economia può far storcere il naso a
parecchia gente, e rievocare spettri nemmeno troppo remoti. Ad alcuni la
presenza della Cassa Depositi e Prestiti – cioè dello Stato – tra i soci ha per
esempio ricordato un conglomerato in perfetto stile IRI.
L’obiettivo dichiarato di F2I,
d’altro canto, è di investire in progetti infrastrutturali, senza particolari
paletti, a parte quelli legati all’entità della raccolta tra i propri soci.
Telecomunicazioni, energia, trasporti, autostrade: in breve, tutto quello che
ha una rete ed è infrastrutturale. Sulla carta il momento è pure propizio,
visto che proprio in queste ore si inseguono voci su possibili scorpori delle
reti dei principali operatori di telefonia mobile.
Fin qui tutto bene. Se non fosse
che questo business, quello infrastrutturale, ha un protocollo tutto suo, e
vale quindi la pena darci un’occhiata.
Come
prima cosa,
all’estero l’investimento infrastrutturale è spesso e volentieri legato a filo
doppio alla struttura del sistema previdenziale, caratterizzata (vedi i casi di
Canada e Australia) dall’esistenza di fondi pensione e veicoli finanziari
simili. Questi ultimi, a loro volta, hanno la necessità di investire i risparmi
di lavoratori con pochi rischi e un orizzonte temporale lungo (trentennale),
generalmente pari ad una vita lavorativa.
Da noi queste condizioni, per
ragioni storiche e per innegabili demeriti della classe politica, sono assenti.
Per di più, la scarsa raccolta di TFR dei “nuovi” fondi pensione voluti da
Prodi è una spia del fatto che le ultime riforme non sono sufficienti a creare
un mercato per investimenti “diffusi”, per la massa dei piccoli risparmiatori.
Come
seconda cosa,
gli investimenti infrastrutturali di solito interessano aree “protette”
(monopoli o mercati oligopolistici), in cui lo Stato o enti pubblici assegnano
concessioni ultradecennali: l’incastro finanziario per enormi somme di denaro. Soprattutto,
questi investimenti presentano una componente simbolica pronunciata: sono
investimenti che sanciscono la capacità della classe politica di creare fiducia
e gestirla nel tempo. In altre parole, segnalano al pubblico degli investitori
l’esistenza di una élite con la capacità
di garantire la tenuta del sistema.
E, almeno in teoria, qui in Italia
il fatto di avere lo Stato che co-investe a fianco di altri soggetti dovrebbe
rinforzare ulteriormente questa componente.
Ma se dall’altissima teoria per un
attimo ci spostiamo al più terreno mondo dei fatti che cosa succede? Succede
che alla favola, a quanto pare, non vogliono credere nemmeno gli investitori
nostrani, se è vero, per fare un esempio, che i Benetton stanno investendo (tramite
Sintonia e 21 Investimenti) in diversi asset a carattere infrastrutturale. E lo
stesso vale per il sabaudo Enrico Salza, al timone della Tecno Holding e del
relativo fondo Sistema Infrastrutture. Morale: per ora F2I non se la fila
nessuno.
%0D
Come
terza cosa,
per il contesto in cui è nato, F2I sembra per molti aspetti un paravento di
storie imprenditoriali concluse male e in fretta. Come quella dell’uscita da
Aeroporti di Roma da parte di Macquarie, primo investitore “infrastrutturale”
al mondo. Gli australiani, in origine, hanno visto lo scalo romano come
un’opportunità per i propri fondi specializzati. Salvo fare poi i conti con la
realtà italiana, con continue beghe sindacali, partner finanziari italiane in
costante difficoltà, e repentini avvicendamenti politici a ogni livello. La
ciliegina sulla torta è stato l’avvento di Di Pietro, che, con lo stop ad
Autostrade/Abertis, ha fatto capire che sulle concessioni statali il peso della
politica sarebbe cresciuto.
Altro che legge del mercato,
Macquarie ha imparato la lezione alla svelta: in Italia, quando c’è di mezzo lo
Stato, e non si è parte dell’establishment, c’è solo da rimetterci.