L’omologazione universitaria: la crisi di un sistema degli eguali

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L’omologazione universitaria: la crisi di un sistema degli eguali

L’omologazione universitaria: la crisi di un sistema degli eguali

15 Aprile 2020

Ogni generazione ha i suoi progetti comuni, dei punti di riferimento che diventano consuetudine e, anno dopo anno, regole sociali a cui in qualche modo è implicito sottostare per non sentirsi esclusi dai tanti gruppi che vanno a definirsi.

È vero che vi sono tante strade e scelte differenti, questo perché – se si parte dalla prospettiva liberale – ogni uomo è diverso ed ha competenze altrettanto diverse, altrimenti finiremo per fare tutti lo stesso mestiere. Eppure da più di un ventennio a questa parte va configurandosi un sistema di omologazione che, in realtà, senza volerlo, sta trasformando una generazione di giovani, i cui mostri sacri non sono più quelli dei genitori.

Ancor prima di poter prendere coscienza della vita reale, v’è fuori il mondo che adegua giovani liceali a dogmi e direzioni, sicché già da ragazzini si ha la consapevolezza che non essere bravi in matematica e fisica al Liceo rappresenti un peccato pesante da portarsi sulle spalle da adulti.
Ci sono discipline che vengono ritenute migliori poiché rendono di più nel mercato del lavoro, mentre le altre sono spesso trattate con disinteresse, nonostante il più delle volte diano spazio alla formazione di un reale pensiero critico.

Sicché finisce così questa ruota che ha investito tanti giovani figli degli anni ’80: il mito dell’università, dopotutto, comincia a diventare popolare esattamente nel corso di questa generazione. Se prima si considerava la carriera accademica soltanto alla luce di particolari capacità o per appartenenza ad una famiglia che pretendeva percorsi importanti, ora la stessa laurea triennale è ridotta a nient’altro che un secondo diploma, un riconoscimento sudato che però non basta, ce l’hanno tutti e dunque se vuoi distinguerti devi andare avanti, non finire mai.
In molti casi, soprattutto tra gli studenti più fragili e forse neanche così votati allo studio, questo stress sociale si traduce in suicidi e bugie a familiari ed amici, portando avanti una narrazione di sé che non corrisponde alla realtà ma che, comunque, è coerente con ciò che fanno tutti gli altri: dunque, chi racconta agli altri questa versione alterata di se stesso, lo fa perché non vuole essere percepito come da meno.

Per questa ragione lo stesso mercato dell’università non sempre garantisce un brillante scambio di idee e studi, ma diventa un modo per tenere impegnati per qualche anno quei giovani che, in un modo o nell’altro, prima o poi, andranno ad occupare porzioni di precariato nel mercato del lavoro.

Tuttavia, a questo si accompagna un’altra parte della vicenda: forse nessuno se n’è accorto, eppure, probabilmente, finiremo tutti per studiare sempre le stesse cose, scegliendo le stesse facoltà, master condivisi, magistrali dallo stesso e nauseante nome, oppure triennali in inglese per tentare di sentirsi ancor più diversi rispetto agli altri.

Non c’è nulla di speciale in questi percorsi completamente uguali e stampati: a volte sembra quasi una barzelletta recuperare quelle eterne sigle accademiche, allegare le stesse esperienze in Erasmus, nella stessa città o nazione, in cui, verosimilmente ripetiamo le cose che qualcuno prima di noi ha fatto: tutto non per inseguire quella che è la vocazione interiore, ma semplicemente per soddisfare indirettamente quell’idea che c’eravamo costruiti da più giovani.

Tutto questo, però, non basta, non può bastare e non deve diventare un fattore limitante per chi, invece, in questi schemi non si è mai trovato bene, neanche quando occupava i tanti banchi di legno della scuola superiore. Se volessimo affrontare un discorso prettamente pratico, si potrebbe già partire da una base fondamentale: non importa quello che hai fatto o studiato, nella maggior parte dei casi un’azienda ti assumerà per la tua capacità di essere diverso e portare un valore aggiunto ed irresistibile, ma dovrai essere unico in questo, insostituibile. Questa è una delle ragioni, ad esempio, per cui, a volte, un ragazzo che ha collezionato grandiose esperienze accademiche, ma che ha scarse capacità di problem solving viene scartato a favore di un altro che, invece, è quasi la sua versione inversa.

Margaret Thatcher in uno dei suoi noti discorsi sostenne: “Lasciate che i nostri figli crescano alti, e alcuni più alti degli altri se saranno in grado di farlo”. Da questo possiamo trarne, a beneficio, una conclusione importante: affinché si possa volare in alto, è necessario, innanzitutto, che si dia spazio alla propria vocazione, dedicandosi con impegno e costanza a ciò in cui si è davvero bravi, malgrado le insufficienze in matematica e in fisica. L’alternativa a questo è omologarsi e ripetere il percorso di tanti altri, risultando magari anche i meno bravi, diventando così un nulla rispetto al resto: il prezzo del non ascoltare davvero se stessi è molto alto.