L’onda nera, quando l’antifascismo retorico diventa strumento di lotta politica

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L’onda nera, quando l’antifascismo retorico diventa strumento di lotta politica

06 Dicembre 2017

I tempi della comunicazione, si sa, sono diventati velocissimi, e i messaggi sono sempre più effimeri. Mentre questa nota “va in pagina” magari l’onda nera è già rifluita, sostituita da altre e più concrete preoccupazioni: per esempio cosa potrebbe dire Ghizzoni nella commissione parlamentare sulle banche, se alla fine, superato il cordone sanitario del PD, fosse malauguratamente “audito”.

Oppure, cosa più probabile, continuerà a crescere, poiché “si stanno creando condizioni politiche e persino antropologiche per le quali la più grande conquista del Novecento, cioè la democrazia, può essere rimessa in discussione” (Veltroni dixit). Insomma, mica roba da poco! Se questi sono i prodromi, ci dobbiamo anche aspettare un crescendo di pistolotti finto-colti dello stesso tenore, in una gara spietata a chi la spara più grossa: dal sindaco che candida la sua città a diventare “capitale dell’antifascismo”(visto che con la cultura e i trenini gli è andata malaccio), al giornalista che pensa di acquisire qualche medaglietta con reportage accigliati su bandiere portate in cima ai monti o spiate nelle stanze degli allievi carabinieri, su immancabili saluti romani in campo, o su giovani più o meno nerboruti che irrompono in sedi altrui per leggere un comunicato.

A scanso di equivoci, io – e oso credere tutte le persone dotate di normale sensibilità civica –  non riesco a immaginare nessuna giustificazione plausibile per pratiche politiche intimidatorie, e nemmeno per più lievi attitudini folkloristiche di varia natura, che si configurino o meno come reato. Detto questo, il discorso potrebbe anche considerarsi chiuso: aggiungerei solo che a lume di buon senso tutta questa retorica sul pericolo dell’onda nera mi pare fuori misura e basata più sulla speranza di un qualche ritorno propagandistico per un PD in cattive acque nei sondaggi, che su una adeguata riflessione storica e sociologica.

Ma…  ci sono almeno due ma, che mi impongono di continuare.

Il primo ha a che fare con la solita, fastidiosa e incorreggibile malattia dei “due pesi e due misure”: si condanna il comportamento di giovani che entrano in una sede, interrompono l’attività che vi si sta svolgendo e impongono la lettura di un loro comunicato. Perfetto, ma che dire? Sono decenni che gruppi “alternativi”, centri sociali, combattenti di svariate cause interrompono lezioni, conferenze e riunioni; nelle versioni più soft e educate leggono un comunicato, si siedono un po’ di tempo nella sala prescelta rumoreggiando, lanciano qualche slogan e se ne vanno. Ma talora bloccano l’insegnante di scienza politica o di storia non gradito, talora impediscono al rappresentante di Israele (per esempio) di tenere una conferenza, talora con schiamazzi e spintoni intimidiscono raduni regolarmente autorizzati di gruppi giudicati omofobi dalla loro inquisizioncella, talora alzano urla democratiche e entrano in conflitto attivo con la polizia affinché il comizio di Matteo Salvini (per dire) non si svolga, solo perché il loro tribunaletto di tardivi kominternisti lo giudica fascista. In questa bella serie di pratiche pluraliste abbiamo visto perfino il sindaco di una grande città dare man forte ai facinorosi, per bloccare l’infamia di un regolare e autorizzato comizio del leader di una forza che pure ha i suoi rappresentanti eletti in parlamento, governa intere regioni – e che regioni –  e partecipa con il suo stile e le sue legittime opzioni alla vita delle istituzioni della Repubblica.

Benissimo, allora c’è un’ottima notizia: da adesso in poi sicuramente per questi comportamenti si leveranno condanne unanimi di giornalisti e politici di sinistra, frotte di sindaci candideranno la loro città a capitale della tolleranza e del rispetto democratico di tutti, e perfino i rettori più conigli non consentiranno l’uso degli ambienti universitari come campetto di gioco per aspiranti guerriglieri.

Il secondo “ma” è forse meno sarcastico, ma un po’ più seriamente preoccupato.

Negli indimenticabili anni 70 l’evocazione del fascismo fu frutto di una precisa e studiata strategia per spostare a sinistra l’asse politico del paese. La categoria “fascismo” aveva maglie larghissime, e dentro ci finivano via via non solo i missini in ripresa di consensi, ma liberali anticomunisti, democristiani ostili al compromesso storico, ex comandanti partigiani non propensi a sposare la narrazione comunista della Liberazione. Da una parte questa invadenza propagandistica produsse un contraccolpo: l’apparizione della maggioranza silenziosa e la crescita di una destra che cominciò ad uscire dalla sua riserva identitaria costituirono il terreno fertile del “riflusso” e del movimento di opinione moderato che si coagulò attorno all’avventura giornalistica di Indro Montanelli, e non solo. Gli eccessi di retorica e il clima intimidatorio contribuirono in definitiva a porre le premesse di un’onda lunga che nel 1994, con la geniale aggregazione berlusconiana e la fine della conventio ad excludendum a destra, rivelò anche ai più duri di comprendonio che la maggioranza sociologica degli italiani poteva diventare maggioranza politica.

D’altra parte quegli anni non furono certo confortevoli da vivere. I gruppuscoli più ideologizzati si erano fatti interpreti della religione antifascista, negando agibilità politica e perfino sociale agli avversari, con risvolti violenti nelle scuole e nelle università, e con l’innesco della spirale degli anni di piombo. Il clima culturale era monotematico e opprimente. C’è un episodio chiave, che tanti avranno rimosso: quando l’editore Adelphi intraprese, per cura di Colli e Montinari, l’edizione critica dell’opera omnia di Nietzsche l’establishment culturale si scandalizzò. Le case editrici di destra vissero a lungo in un clima praticamente da samizdat. Lo sdoganamento di filoni anticonformisti fu lento e faticoso, se si pensa che perfino la pubblicazione del Signore degli anelli di Tolkien fu accolta con molta diffidenza: in definitiva la legittimazione fu sempre stentata, e non fu mai davvero consentito di respirare aria pluralistica a pieni polmoni. La pubblicazione dell’Arcipelago Gulag di Solzenicyn, che in Francia era entrato con forza nel dibattito pubblico, qui fu salutata a denti stretti, quando non proprio con l’ostilità riservata a chi smonta rassicuranti universi onirici.

Il clima di quegli anni è così lontano che forse ci siamo immaginati non potesse più riprodursi, che fossimo in qualche modo al sicuro. Qualcuno per caso ci vuole tornare? Anche escludendo un disegno consapevole, di fatto stanno riaffiorando classificazioni semplicistiche funzionali al solito disegno politico: vincere demonizzando l’avversario. Esagerato? Quando decine di consigli comunali deliberano che per fare politica in pubblico devi avere un certificato antifascista (e antiomofobo, ça va sans dire) col timbro del comune, qualcosa di grave è già accaduto, senza che praticamente nessuno ne abbia denunciato con vigore la logica illiberale soggiacente.

La Costituzione e le leggi non bastano più e sono necessari zelanti comitati di controllo ideologico sul territorio? Seguiranno le denunce dei “sospetti”, come in ogni copione giacobino che si rispetti? La preoccupazione forse è eccessiva, forse no. Ma in ogni caso ci spinge a guardare con occhio almeno diffidente l’enfasi sull’onda nera e il compulsivo rincorrersi di proposte di censura, regolamenti e leggi dal sapore liberticida.