Londra brucia e il multiculturalismo di Blair se ne va in fumo

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Londra brucia e il multiculturalismo di Blair se ne va in fumo

08 Agosto 2011

Il mio articolo sulla tragedia di Utoya e sul multiculturalismo ha suscitato critiche di lettori in difesa del multiculturalismo e note di biasimo per la mia posizione sulla guerra contro la Serbia. Leggendole stupisce l’analfabetismo politico-culturale. Il  multiculturalismo è in netto contrasto con la teoria dell’assimilazione e dell’integrazione degli stranieri (in inglese “aliens”) e, quindi, anche col melting pot. L’America del Nord è una nazione di nazionalità, che si è tentato di amalgamare col melting pot, in modo da unire le varie identità sotto la bandiera degli States. Il multiculturalismo è  contrario all’assimilazione e all’integrazione e propone la salad bowl o il mosaico di culture. Chiede agli Stati occidentali di dare cittadinanza agli immigrati, lasciando il diritto  ai diversi gruppi etnici di conservare religioni e culture, ma questo comporta il relativismo giuridico e la dissoluzione degli Stati occidentali, perché ci sono popoli per  i quali la religione coincide con la legge.

Durante l’era Blair in Gran Bretagna sono state istituite ottantacinque corti islamiche per le cause tra islamici, poi il governo Cameron ha stoppato i tribunali islamici, perché portavano alla balcanizzazione del Regno Unito. Negli Stati Uniti non ci sono mai stati tribunali islamici. Il multiculturalismo infatti è nato a Birminghan ad opera di Richard Hoggart, un insegnante di letteratura inglese che inventò il termine multiculturalismo e fondò un centro di Cultural Studies. All’inizio il centro lavorava sui cambiamenti culturali del proletariato inglese, poi, alla fine degli anni ’70, quando la mitica classe operaia inglese cominciò a votare Thatcher, Hoggart, Stuart Hall, un giamaicano esperto di letteratura caraibica, Ziauddin Sardar, un pakistano competente di Islam e, soprattutto, Raymond Williams, fondatore nel 1960 della New Left Review, a cui collaboravano gli animatori del Centro, cominciarono a occuparsi di razzismo,  femminismo, media, comunicazione di massa.

Le politiche multiculturali adottate da molte amministrazioni locali laburiste furono tra i motivi del successo del Labour alla fine degli anni ’90 e Tony Blair, consigliato anche da  Bill Clinton, sconfisse i Tories. Dal 1997 al 2007 Blair incoraggiò l’immigrazione dall’Africa e dall’Asia: nel 2000 i cittadini british nati in Africa, soprattutto in Somalia, erano il 30% e quelli nati in Asia, soprattutto in Pakistan e in India, erano il 40%.  Lo tsumani immigrazione, più del deludente esito della guerra in Iraq e in Afghanistan,  ha provocato la sconfitta del Labour nelle ultime elezioni e la dichiarazione di Cameron contro il multiculturalismo.

Alla base del multiculturalismo inglese degli anni ‘70 c’è la teoria dell’egemonia di Gramsci, per il quale, non va dimenticato, del fascismo erano responsabili tanto il senatore Agnelli quanto Benedetto Croce, il teorico di tutti “i gruppi e gruppetti, camarille e mafie” e “il capo di un ufficio di propaganda di cui tutti questi gruppi beneficiavano e si servivano, il leader nazionale dei movimenti di cultura che nascevano per rinnovare le vecchie forme politiche”. Negli anni ’80 Gramsci venne mescolato con Foucault ( quello della Volontà di sapere  e di Sorvegliare e punire )  e con Derrida. I due filosofi ebbero un grande successo negli Stati Uniti e anche il multiculturalismo fu accolto con entusiasmo nelle università. Gli accademici americani marxisteggianti o vicino alla New Left furono galvanizzati dal multiculturalismo: finalmente avevano qualcosa di simile alla mitica classe operaia dei colleghi europei e carburante per tanti libri e convegni.

Negli Stati Uniti il multiculturalismo ebbe però una funzione diversa dall’Inghilterra e si inserì in una riforma universitaria mirata ad adeguare i contenuti di discipline come la storia, la letteratura, gli studi sociali, ai diversi background etnici degli studenti americani. Fu messo sotto accusa il carattere razzista della cultura americana, discriminante nei confronti degli studenti provenienti da Africa, Asia, Messico, America Latina e ai corsi su Shakespeare si  aggiunsero quelli su poeti e letterati africani sconosciuti. Sartori racconta nel suo libro sul multiculturalismo che Saul Bellow fu accusato di razzismo e passò un brutto periodo,  perché gli scappò detto “Quando gli Zulù avranno un Tolstoj, lo leggeremo”.

Negli Stati Uniti il multiculturalismo ebbe l’obiettivo di dare spazio sociale e politico a gruppi etnici importanti come gli afro e i latinos, di eliminare definizioni spregiative  (il politically correct che poi si è applicato a tutto,  diventando una neolingua) e fu una opzione di realismo politico, come lo  era stata la scelta di  Kennedy di sostenere i diritti civili dei neri negli anni ’60,  durante la guerra fredda, per evitare di dare un’arma ai sovietici.  Il  melting pot e il multiculturalismo non hanno creato integrazione in America, ma separazione. I diversi gruppi etnici votano i loro simili, hanno proprie associazioni, lobbies, clientele. Gli afroamericani sono cristiani, ma preferiscono votare afroamericani, i latinos sono corteggiati da repubblicani e democratici e negli stati dove sono forti lo spagnolo è la seconda lingua. Gli Stati Uniti sono  una nazione di nazionalità, mentre l’Europa è un continente di nazioni e se l’immigrazione ha avuto senso per il Regno Unito con il Commonwealth, non ne ha molto per l’Italia.

Da noi è l’immigrazione regolare è provocata da due motivi. Primo, gli italiani non vogliono più fare alcuni mestieri ( il 29% delle imprese richiede elettricisti, idraulici, tornitori, falegnami), però abbiamo due milioni di giovani che non lavorano, né studiano, vivono di sussidi: poiché non c’è una adeguata preparazione tecnica, occorre quindi una riforma scolastica per formare tecnici, come quella tedesca con tre giorni di scuola e tre di lavoro. Secondo, il calo demografico dopo gli anni ’60 pone il problema di “cittadinizzare” gli immigrati per pagare  le future pensioni. In questo caso sarebbe meglio aumentare l’età della pensione subito per i lavori meno usuranti, ma, in ogni caso bisognerebbe, “cittadinizzare” quelli  più simili a noi, per non ritrovarsi col problema inglese dei tribunali islamici, perché, come hanno capito gli inglesi, a quel punto lo Stato si dissolverebbe. La sinistra, che si riempie la bocca di legge, dovrebbe almeno tenere conto di questo.

E’ chiaro che con gli immigrati che vengono dall’Europa dell’est è tutto più facile perché sono europei, ma dobbiamo soprattutto  incoraggiare la ripresa demografica aiutando le giovani coppie e le famiglie, oltre a liberare le imprese da quegli ostacoli che le spingono a emigrare all’estero. Il multiculturalismo è diventato un cavallo di battaglia della sinistra solo dopo la fine dell’Urss e quando la mitica classe operaia nel ‘94 votò Forza Italia e Lega.  Pierre Rosanvallon, un ex-teorico dell’autogestione, e Nadia Urbinati teorizzano che, finita la guerra fredda e i partiti ideologici, il voto non è più un momento di identificazione sociale e partitica e, quindi, la sinistra per vincere ha bisogno di inventarsi nuovi movimenti e nuovi fictional world, perché il voto, secondo loro, non è razionale.

Sul Domenicale del Sole Remo Bodei ha riempito di lodi un libro di Nello Preterossi, che vuole creare un nuovo populismo di sinistra, inventare un nuovo immaginario politico, che esprima sentimenti, passioni e narrazioni, perché la gente vota con la “pancia”. Per creare nuovi movimenti e nuovi fictional world, il multiculturalismo – un calderone dove si può mettere di tutto, dagli immigrati, ai precari, alle femministe, ai gay, ai transgender, ecc. –  può offrire un nuovo vivaio elettorale, come al Labour, che non riusciva a vincere contro i Tories. Le elezioni di Milano, con gli immigrati musulmani che volevano manifestare per Pisapia vestiti di arancione,  e Napoli, con De Magistris-Masaniello, sono un esempio del populismo della sinistra, il cui simbolo è la canzone di Vecchioni. In “Chiamami ancora amore” c’è il tricolore, invece della bandiera rossa, e alla classe operaia del populismo del Pci si è sostituito il disoccupato, il precario, il soldato che muore nel deserto per Obama e il clandestino morto in mare per  arrivare a Lampedusa, in cerca di sogni e  amore. 

Occorre essere chiari: spero di non scandalizzare nessuno, ma credo che Oriana Fallaci e Bin Laden fossero abbastanza simili, perché nessuno dei due voleva stranieri a casa propria. Osama non voleva occidentali, Oriana non voleva arabi. Sono due soluzioni estreme. Tra la società chiusa e il multiculturalismo, esiste però l’interculturalismo, come ricorda Giovanni Sartori. Noi europei non ci sentiamo certo europei perché abbiamo un passaporto europeo, ma perché, pur ammazzandoci per secoli frequentemente, e pur avendo ancora rivalità e idiosincrasie di ogni tipo, abbiamo imparato a conoscerci attraverso gli scambi culturali e commerciali. C’era perfino un stile  europeo di fare la guerra: Napoleone fu mandato a Sant’Elena, non a Norimberga, e la Francia non venne occupata e smembrata tra le potenze vincitrici.  Per secoli gli europei si sono ammazzati, ma dopo le guerre ci sono le paci e  ricominciano gli scambi.  Nelle città europee ci sono chiese cristiane di ogni rito, sinagoghe e anche moschee, perché c’è l’interculturalità. Non  si capisce poi perché proprio noi italiani, che abbiamo avuto emigrati e sappiamo quanto soffrivano a partire, dovremmo augurarci che altri popoli debbano fare la stessa esperienza.

L’Europa deve semmai aiutare i paesi del Mediterraneo e cooperare perché possano lavorare nella loro terra e  poiché noi italiani siamo mediterranei ( arabi, dice l’Economist, credendo di offenderci perché non siamo biondi e non diventiamo aragoste sotto il sole come gli inglesi) va sostenuta la proposta di D’Alema di una nuova Europa del Mediterraneo che includa i paesi del Nord Africa e arabi nostri vicini, con i quali siano possibili scambi all’insegna dell’interculturalità, non del multiculturalismo, che porta alla balcanizzazione e alla Serbia.

Sulla Serbia il mio articolo ha avuto forti critiche, ma sono convinta che sulla ex-Jugoslavia abbiano aleggiato troppi fantasmi, troppi risentimenti, passioni, interessi. Non solo quello di Elizabeth Stuart, la fondamentalista protestante che iniziò la Guerra dei Trent’anni. L’Europa ha fallito  sulla Serbia e a bombardare Belgrado, una città europea. Ha fallito la Germania, che forse non aveva dimenticato lo sparo di Gravilo Princip, a riconoscere immediatamente la secessione della Croazia e ha sbagliato anche la Santa Sede. Commise uno sbaglio Trieste a non permettere l’evacuazione delle truppe jugoslave autorizzata dal presidente Cossiga, a non dimenticare l’occupazione degli partigiani di Tito nel luglio ’44, le violenze, l’incubo di essere annessa, come l’Istria, all’Jugoslavia. Sbagliò gravemente Bill Clinton ad armare i croati e prepararli alla guerra contro i serbi che si trovavano in Croazia. Alla ricerca di un posto nella storia, Clinton prima tentò lo sbarco in Somalia, poi l’accordo tra palestinesi e israeliani, ebbe l’accordo di Camp David nel 1995, voleva che gli israeliani lasciassero i territori occupati, ma gli israeliani erano preoccupati per il futuro e pare sia stato addirittura  Netanyhau a organizzare lo scandalo Levinsky per azzoppare il marito di Hillary, che forse rimarrà nella storia soprattutto per il Kosovo.

La guerra scoppiata tra croati e serbi e poi tra serbi e bosniaci fu crudele, anche se serbi, croati e bosniaci, cristiani e musulmani, avevano vissuto pacificamente fino alla morte di Tito nel 1980. Lo stesso massacro di Srebrenica  si sarebbe potuto evitare se i militari olandesi in missione Onu per tutelare i civili avessero protetto meglio i musulmani bosniaci, come ha riconosciuto un corte d’appello olandese questo luglio, condannando i militari olandesi che consegnarono tre musulmani bosniaci ai serbi. La guerra contro la Serbia si svolse nell’indifferenza dell’Europa, non ci furono appelli di intellettuali. Soltanto l’austriaco Peter Handke condusse una protesta solitaria contro la guerra e contro la dissoluzione dell’Jugoslavia. In questo caso ha prevalso l’affetto per la madre slovena e per le terre familiari dell’ex Jugoslavia. Handke ha rappresentato lo spirito mitteleuropeo della felix Austria, l’impero polietnico e multinazionale degli Asburgo, che fu per secoli garanzia di stabilità.

Nel libro dell’esilio Enzo Bettiza, un grande figlio della Mitteleuropa, ha raccontato le violenze dei titini, l’esodo da una terra amata, a cui la sua famiglia aveva dato molto. Roberto Viarelli ha ricordato dopo molti anni la sofferenza per il padre ucciso dai titini in modo barbaro e tante famiglie italiane hanno a lungo ricordato in silenzio qualcuno ucciso in modo spaventoso dai titini ed è stato importante dare a quei morti il riconoscimento pubblico della memoria, ma il rispetto e la memoria per i propri morti, non può ignorare che in tempo di pace la gente è diversa da quando fa la guerra. E per lungo tempo nella ex Jugoslavia erano vissuti in pace. La Serbia è stata a lungo  penalizzata ed è ora che l’Unione europea l’accolga. Quanto ai due milioni di musulmani del Kosovo, speriamo non capiti loro una storia simile a quella degli ebrei israeliani ai quali fu concesso dall’Onu lo Stato d’Israele, voluto dagli americani, caldeggiato all’inizio dall’ Unione Sovietica perché ritenuto socialista e sostenuto dalla Francia per le ambizioni su Suez, poi dagli americani, dopo la guerra dei sei giorni, quando i russi passarono a sostenere gli arabi e Israele divenne per gli Stati Uniti l’unico Stato amico nell’area araba durante la guerra fredda. Dopo la fine dell’Urss e della guerra fredda, Israele è stato pressato perché si ritirasse dai territori occupati e usato dalla propaganda di Bush per la guerra contro l’Iraq e l’Afghanistan, infine scaricato da Obama di fronte alla necessità di ritirarsi dall’Afghanistan e di stabilire buone relazioni col mondo islamico.

L’Onu fa e disfa Stati, perché, come dice Niall Ferguson, non certo antiamericano, è il miglior strumento della politica estera americana. Come dice Giovanni Sartori, non certo antiamericano, la comunità del mondo non esiste: esiste solo il grande teatro del mondo che gira.