Lorenzin: “Una spending all’inglese per investire nella Sanità”

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Lorenzin: “Una spending all’inglese per investire nella Sanità”

09 Marzo 2014

Qual è la differenza tra un buon “tecnico” e un buon politico? Che i tecnici tendono per deformazione alla manutenzione degli ordinamenti e rispondono a logiche spesso vincolanti, mentre i politici vogliono superare quei vincoli avendo una propria visione della realtà. Beatrice Lorenzin, ministro nel Governo Letta, riconfermata dal premier Renzi alla guida di un dicastero importante come quello della Salute, è un politico tout court: una decisionista che non trascura il confronto, una donna che su tante questioni ha saputo scegliere tra un ventaglio di opzioni complesse, un ministro con un piano per riformare la sanità italiana.

PATTO PER LA SALUTE. Il disavanzo del nostro sistema sanitario risale al periodo compreso tra il 2001 e il 2006. Tra 2007 e 2008, metà delle Regioni italiane erano commissariate. A fare la parte del leone è stato il MEF e lo stesso ministero della Sanità per un periodo è finito accorpato a quello del Lavoro. L’azione combinata del ministro Tremonti e della spending review di Mario Monti ha prodotto 25 miliardi di euro di tagli, un piano di rientro da brividi destinato a proseguire fino al 2016. In una situazione di forte indebitamento pubblico che impedisce di mettere un solo euro in più sulla sanità, Lorenzin ha puntato a drenare risorse all’interno del sistema per poi ridestinarle in investimenti mirati. «Ho detto no a 1,6 miliardi di tagli lineari», spiega all’Occidentale, «e l’aumento di 2 miliardi dei ticket non è passato».

«Il problema è come gestire la spesa pubblica in futuro», ragiona il ministro, «penso a una sorta di spending interna, all’inglese, che ci permetta di investire in persone, competenze e tecnologia». Il “Patto per la salute”, Stato e Regioni che definiscono un accordo per programmare la spesa sul triennio e individuano gli interventi prioritari in modo da farli recepire nella Legge di Stabilità: «dalla riconversione dei piccoli ospedali alla corretta gestione delle degenze, dall’e-Health a una centrale unica di acquisto», sul modello di Consip, per evitare la parcellizzazione e fare economie di scala. E ancora, grazie ai meccanismi open data, intervenire in singole aziende sanitarie che presentano anomalie a livello finanziario o nei servizi. Sui costi standard per le Regioni, il ministro sottolinea che «una spesa sanitaria più razionale è già operativa: abbiamo selezionato tre Regioni benchmark, Umbria, Veneto ed Emilia ottenendo una media di costo standardizzata». Insomma, «tutto questo ci permetterà di risparmiare e fare nuovi investimenti».

ASSISTENZA SANITARIA TRANSFRONTALIERA. Nella sanità italiana esiste un forte divario tra le Regioni del Nord e del Mezzogiorno: negli ultimi anni ci sono stati 1,5 miliardi di investimenti per infrastrutture nel Nord, poco e niente per il Sud. Ecco perché, quando le chiediamo di parlarci di “assistenza sanitaria transfrontaliera” – la direttiva europea che amplia i confini dei servizi sanitari nazionali eliminando gli ostacoli alla libera circolazione delle persone finalizzata alle cure – il ministro Lorenzin riflette con attenzione sui benefici ma anche sui rischi dello scenario emergente: l’assistenza transfrontaliera è «la prima vera direttiva di welfare europeo» ed è anche una «sfida attrattiva» per valorizzare le eccellenze italiane: «siamo abituati a parlare solo male dell’Italia ma noi offriamo prestazioni al top e con costi minori». Va anche aggiunto che i cittadini europei venuti in Italia, a differenza di prima, saranno rimborsati dai rispettivi sistemi sanitari del loro Paese di provenienza, lasciando invariata la spesa del nostro (saranno gli Stati a pagare le prestazioni nei limiti di quanto costerebbero nel Paese di provenienza).

Ma proprio per tutto ciò che abbiamo detto fino ad ora, il divario tra nord e sud, le Regioni in piano di rientro, gli investimenti da fare e le riconversioni già in atto, bisogna evitare che troppi pazienti italiani prendano il volo per altre città europee. «Mentre facciamo marketing per esportare le nostre strutture di cura e le nostre competenze, dobbiamo investire per trattenere i pazienti nelle regioni a mobilità attiva», dice Lorenzin. Per cui va bene premiare la qualità e rendere più competitiva la sanità europea ma vanno evitati lo spreco di risorse tecniche e strumentali e ulteriori costi. Se per esempio una regione del Sud ha fatto investimenti in un determinato settore bisognerebbe scongiurare la possibilità che si crei un flusso di pazienti italiani che partono per farsi curare altrove. Immaginare dei limiti alla uscita oppure ai rimborsi o derogare almeno in certi casi al principio della direttiva che elimina le vecchie autorizzazioni nazionali – si pensi all’utilizzo di attrezzature costose piuttosto che alle degenze di almeno una notte – non significa rinunciare all’Europa, bensì trovare un punto di equilibrio tra locale, nazionale e sovranazionale.

STAMINA. Infine non si può evitare di chiedere al ministro una dichiarazione su uno dei casi che ha scosso di più l’opinione pubblica italiana negli ultimi tempi, il controverso metodo Stamina. Ricostruiamo in breve l’accaduto: il Tar, fissando dei paletti che hanno ben poco di scientifico, ha dato ragione a Stamina che aveva impugnato l’atto di costituzione del (primo) comitato di esperti nominato per verificare il procedimento pubblicizzato da Vannoni. La relazione scritta dagli scienziati del comitato aveva bocciato all’unanimità Stamina dichiarandolo un non-metodo e il ministero aveva deciso di interrompere la sperimentazione. Stamina aveva accusato gli scienziati di non essere imparziali.

Il Tar introduceva di fatto un principio discutibile: siccome gli scienziati avevano già espresso una posizione negativa contro il metodo prima della loro nomina, non erano credibili, alla faccia di Popper, della dialettica scientifica e della libera discussione tra ricercatori. Dopo il pronunciamento del Tar, il ministero avrebbe potuto impugnare la sentenza davanti al Consiglio di Stato ma Lorenzin con accortezza ha preferito seguire la strada della costituzione di un nuovo comitato di esperti. «Auspichiamo che il lavoro del nuovo comitato si svolga nei tempi che saranno ritenuti necessari e in modo esaustivo», dice il ministro, ma perché non è stato scelto come presidente il candidato indicato dal ministero, il professor Mauro Ferrari? «Con l’avvocatura dello Stato ci siamo premuniti di non avere ulteriori ricorsi». La sua nomina probabilmente avrebbe riaperto le polemiche impedendo al comitato di lavorare in serenità.

Una cosa è certa: «Parlare di par condicio nel metodo scientifico è una aberrazione», secondo il ministro «la libertà di espressione è parte integrante del metodo scientifico». In Italia serve «una separazione netta fra politica, giustizia e scienza, perché parlare di sentenze che definiscono un metodo scientifico, o della politica che definisce ciò che è prescrittibile, personalmente mi sembra assurdo. Nel nostro Paese c’è un impoverimento della cultura scientifica, non solo a livello scolastico, come ci dicono le statistiche, ma anche nella percezione della opinione pubblica», conclude. «I programmi televisivi che fanno propaganda purtroppo sono diventati più attendibili dei centri impegnati nella ricerca scientifica».