L’ottimismo di Alberoni inciampa sui tempi moderni

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L’ottimismo di Alberoni inciampa sui tempi moderni

03 Gennaio 2009

Nell’ultima puntata del 2008 della sua nota rubrica ‘Pubblico § Privato’, Francesco Alberoni ha difeso, sul ‘Corriere della Sera’, <questa nostra epoca contro i nostalgici del passato>, sostenendo che è <sbagliato rimpiangere antichi valori di violenza e di morte>. Per il lettore d’oggi che un giorno sì e l’altro pure s’imbatte nei piagnistei sull’irrimediabile decadenza del nostro tempo, sulla ‘perdita dei valori’ e sul medioevo prossimo venturo che sta sempre per ritornare, le parole del sociologo rappresentano una boccata d’aria fresca. E di realismo! Nessuna delle epoche passate, scrive, può venire rimpianta: non certo quelle dell’Inquisizione, della ghigliottina, del commercio di schiavi, delle rivoluzioni rosse e nere, dei <generali della prima guerra mondiale che mandavano i soldati all’assalto alla baionetta sotto il fuoco delle mitragliatrici gridando ‘viva la patria!>. A quanti  sospirano le certezze di ieri si può rispondere solo con i ‘fatti’ nudi e crudi che ci parlano di un’esistenza individuale e collettiva ben più travagliata di oggi. <Sono questi i solidi valori del passato che voi nostalgici rimpiangete?>chiede Alberoni ai ‘laudatores temporis acti’. Sono <il bombardamento di Dresda o la bomba atomica di Hiroshima o i massacri della rivoluzione culturale di Mao? Oppure rivolete la miseria dei contadini del Meridione, le loro donne con dieci figli e il prolasso dell’utero? A quali antiche sicurezze vi aggrappate? Io non credo in queste sicurezze, non voglio tornare indietro>.

Si tratta di una reazione contro il pessimismo antropologico che apprezzo e condivido. Sono abbastanza avanti con gli anni da ricordare un’Italia assai diversa dall’attuale. La spiaggia semideserta di Serapo, <là presso Gaeta>, dove, nelle domeniche estive, ci si recava con la mitica seicento e il gateau di maccheroni pronto per essere divorato dopo il bagno. Le strade della Napoli degli anni cinquanta popolate da un’umanità malnutrita, troppo magra o troppo grassa, che induceva a chiedersi da dove fossero spuntati gli Antonio Cifariello e le Sofie Loren. Le feste di Natale quando le persone che appartenevano al mio ceto—mio padre era funzionario di un ente parastatale, l’Inail—si sentivano privilegiate per il fatto di potersi permettere, oltre al Pepitas Pernigotti, il mitico, raffinatissimo, torrone Nurzia ‘tenero al cioccolato’, più costoso dell’altro. Ormai, da anni, la spiaggia di Serapo concede, solo su prenotazione, un metro quadrato a persona ma tutti vanno al mare, respirano iodio, fanno le abbronzature e tornano dalle vacanze ‘più belli che pria’; a volte, entrando in un’aula universitaria di Napoli, piena di belle guaglione, ci si chiede se non vi si siano date convegno le finaliste di Miss Capri o di Miss Italia e, quanto ai consumi, ci si allarma se non reggono i ritmi frenetici degli anni passati.

Nella nostra epoca <criticata, condannata> <non c’è la pena di morte, non si perseguita nessuno per la sua razza o la sua religione, in cui si danno cure mediche a tutti, pensioni ai vecchi, dove chi vuole amarsi si ama e chi vuol separarsi si separa e dove si cerca di non far soffrire nessuno, nemmeno gli animali>. In più andrebbe messo in attivo l’allungamento della vita media. Quando arrivai, qualche anno fa, alla fatidica soglia dei sessant’anni, ricordai una conversazione tra i miei genitori di mezzo secolo prima. Alla notizia della morte di un vicino, avevano commentato:<Beh! pure era arrivato a una bella età, sessantun’anni!> |sic!|

Dobbiamo essere allora tutti contenti, metterci il cuore in pace e riconciliarci con la nostra epoca <forse un po’ cialtrona, superficiale, leggera, disordinata, ma più tollerante, più mite, più comprensiva e, in definitiva, perdonatemi, più civile>?

Purtroppo, nella vita, le cose non sono così semplici e l’ottimismo di Alberoni vale in fondo quanto il pessimismo del <non c’è più religione>. E’ vero, nel mondo di Pane, amore e fantasia, il bellissimo film di Luigi Comencini del 1953, il manovale in pausa pranzo alla domanda del maresciallo Antonio Capurro :<cosa ci hai messo nella tua pagnotta?> rispondeva rassegnato. < Marescià, un po’ di fantasia>; e, tuttavia, a riguardare oggi quell’<umile Italia>, si ha come una sensazione di ‘pulito di bucato’, di radici ancora intatte, di sentimenti primordiali non guastati dalla ‘modernità’. Nessuno, beninteso, vuole criminalizzare il progresso che avrebbe messo nella pagnotta del manovale il prosciutto di Parma o l’hamburger ma i bilanci vanno fatti senza dimenticare nessuna voce: né le risorse materiali e culturali che l’avanzare della civiltà ci ha procurato—tetto, cibo e lavoro ma anche arricchimento delle conoscenze, possibilità di viaggi in terre lontane, disponibilità di prodotti artistici una volta impensate etc.—né i costi psichici che, in cambio, hanno comportato. Sul piano della ‘società’ (la ‘Gesellschaft’) e della ‘Zivilisation’, forse, non abbiamo di che lamentarci, anche se il nostro tenore di vita nei prossimi anni è destinato ad abbassarsi ma sul piano della ‘comunità (la ‘Gemeinschaft’), degli intensi legami interpersonali, qualche perdita è innegabile. Gli uomini non sono soltanto navigatori proiettati nel futuro ma anche alberi piantati nella tradizione, nella famiglia, nei paesaggi naturali e spirituali, che definiscono le identità e, in definitiva, garantiscono lo stesso progresso, consentendo a ogni nuovo edificio, che si aggiunge alla ‘città’, di fondarsi sulla roccia del passato e non sulle sabbie mobili di un divenire sempre aperto e ontologicamente incerto. Insomma, come si legge nel Vangelo di Matteo, <non di solo pane vive l’uomo>.

Nell’evo moderno, a garantire il ‘cemento sociale’, nella parte del pianeta che chiamiamo Occidente, sono stati soprattutto tre fattori, l’uno prepolitico o extrapolitico, la ‘comunità tradizionale’ e gli altri due decisamente politici, l’ideologia e la nazione. Sul primo, il nostro paese ha potuto contare almeno fino al 1968. Le solidarietà spontanee, i costumi del cuore e gli abiti della mente, sostanzialmente condivisi, anche quando si militava in partiti opposti—il ‘piccolo mondo’ di don Camillo e di Peppone, inventato da Giovannino Guareschi, idealizzava sicuramente l’eterna provincia italiana ma ne coglieva anche aspetti reali—erano, in qualche modo posti al riparo della parrocchia, del municipio con le sue guardie, della piazza teatro dello struscio domenicale e prefestivo. Era un microcosmo ‘protetto’ in cui ci si sentiva sovente stretti, specie se si era giovani, ma che non dava lavoro agli psicanalisti, ai medici specializzati nella cura di bulimia e di anoressia. Luci e ombre—come dappertutto, come sempre—che la poetica felliniana ha colto magistralmente, alternando la spietatezza dello sguardo alla rievocazione di irripetibili <sabati del villaggio> (v. l’indimenticabile  passeggio serale di ‘Amarcord’!). Questa dimensione era ‘surdeterminata’ dalla religione il cui messaggio universalistico diventava agevolmente momento di coesione in regioni da cui la politica si era ritirata o si teneva a distanza.

Gli altri due fattori di ricucitura sociale, invece, ci portano nel cuore del moderno che è quanto dire nel cuore del politico. Il primo, la <nazione>, nel senso della <comunità politica>, ingenera sentimenti di lealtà e di fedeltà nei confronti dalla ‘casa comune’. A definire l’identità individuale non è più l’essere romagnolo o napoletano ma l’appartenenza a una ‘comunità di destino’ di cui si deve essere fieri e degni. Figure non proprio simili come Giuseppe Mazzini, Francesco De Sanctis, Edmondo De Amicis rappresentano i simboli più alti di un’etica pubblica che conferisce senso e dignità solo a quanti sono impegnati nel fare la patria sempre più grande e più bella. "Chi per la patria muor vissuto è assai, la fronda dell’allor non langue mai>, canta il coro nell’opera ‘Donna Caritea’ di Saverio Mercadante  su versi di Paolo Pola.

Il secondo, l’<ideologia>, non riguarda più la <comunità politica> ma il <regime politico>, le ‘forme di governo’. Sono in gioco valori come la libertà, la giustizia, i criteri di assegnazione delle risorse sociali. Le dottrine elaborate dall’<etica del progetto> (ispirata a una versione esigente dell’illuminismo e alla secolarizzazione del cristianesimo) guardano oltre le frontiere degli Stati: i diritti civili, politici, sociali debbono essere riconosciuti a tutti, giacché dovunque <gli uomini nascono liberi ed eguali>. Quei diritti sono stati calpestati negli anciens regimes ed è compito delle nuove generazioni creare, attraverso la via riformistica o quella rivoluzionaria, le condizioni sociali, politiche, culturali atte a precipitare nell’oblio il <mondo di ieri> col suo bagaglio di superstizioni e di privilegi.

Se nella <nazione> si manifesta, per così dire, un <imperativo territoriale>, una forte componente di destino, nell’<ideologia>, si trova l’imperativo della trascendenza nel senso di Ernst Nolte, come dovere di superare la propria datità, di contribuire a un’impresa epocale di ‘riscatto’: in entrambi i casi, non c’è <vuoto spirituale> e l’esistenza umana non è una finestra aperta sul nulla.

E’ scontata l’obiezione dell’ottimista: < il piccolo mondo antico> della parrocchia e dei notabili locali non ha compresso le individualità? Non ha prodotto infelicità e fatto deperire, per secoli, per generazioni, le ‘capacità di uomini e donne di realizzarsi nell’arte e nel lavoro, di rendersi utili agli altri? La nazione non è degenerata in nazionalismo e poi in fascismo? Il costruttivismo razionalista non ha prodotto il giacobinismo e  qualche secolo dopo il comunismo totalitario?>. L’obiezione è ‘forte’ e, per certi aspetti, insormontabile. E tuttavia come si pensa di appagare la richiesta di senso, una richiesta che, piaccia o no, si ripresenta quando meno ce l’aspettiamo? I consorzi umani, nella <buona sorte>, non hanno bisogno del collante dei valori: ognuno coltiva il suo giardino e così facendo contribuisce al benessere generale. Ma cosa accade nella <cattiva sorte>, quando lo stare assieme non garantisce più provvidenze a favore di nessuno e si spalanca l’abisso della recessione e della miseria di massa? Senza la religione, la patria, le ‘sentimentalità’ che sorreggono le ‘formule politiche’, la società <cialtrona, superficiale, leggera disordinata ma tollerante, mite, comprensiva> continuerà ad essere <civile?>.

Né si dica che, in una società liberaldemocratica, a tenere in vita il consorzio sociale è una legittimazione diffusa del sistema politico che si fonda sulle istituzioni ovvero su < modelli di comportamento stabili, validi e ricorrenti> che rendono il cittadino fiducioso nel rispetto della legge, nella tutela dei suoi diritti, nella possibilità di programmare pacificamente la sua esistenza senza dover fare i conti con la violenza e con l’arbitrio dei governi e dei privati. Le ‘istituzioni della libertà’, infatti, sono quanto di meno peggio gli esseri umani siano riusciti a escogitare per contenere il Principe delle Tenebre ma pensare che alla loro durata e al loro consolidamento non abbiano contribuito, in significativa misura, i tre fattori summenzionati sarebbe davvero ingenuo. Religione, nazione, progetto non sono ‘qualità secondarie’ dell’universo anglosassone ma il deposito alluvionale su cui si sono impiantati, con effetto di reciproco rafforzamento, le antiche costituzioni e gli antichi diritti, con le loro ‘libertà’ al plurale. Ma questo è un discorso che richiede ben altro spazio.