Luciano Pellicani, l’intellettuale anticonformista dimenticato dalla sinistra
15 Aprile 2020
Venerdì 10 aprile – proprio nel giorno del suo ottantunesimo compleanno (era infatti nato il 10 aprile del 1939 a Ruvo di Puglia / Bari) – è morto a Roma Luciano Pellicani, sociologo, giornalista e docente universitario.
La notizia della sua scomparsa ha giustamente riportato al centro del dibattito la sua figura, il suo ruolo di intellettuale e il suo contributo alla vita culturale italiana negli ultimi 40 anni, anche se, colpevolmente, nessuna delle grandi testate giornalistiche, alcune delle quali lo avevano annoverato tra i propri editoralisti, ha trattato la notizia con il giusto risalto.
La battaglia delle idee è feroce, agguerrita, e – al pari di quella fisica – ha bisogno di grande coraggio, perché l’eterodossia, il non allineamento al conformismo imperante si pagano duramente e Luciano Pellicani lo sapeva e lo aveva provato sulla sua pelle. La sua colpa più grave? Il fatto di affermare con forza, assieme ai suoi maestri – Ortega y Gasset (di cui aveva curato l’edizione italiana degli scritti sociologici e politici), Simone Weil e Raymond Aron – che il totalitarismo non è una “deviazione” del marxismo-leninismo, bensì una coerente trasposizione e realizzazione.
Proprio per questo – per il professore pugliese – fra comunismo di ispirazione marxista-leninista e socialismo democratico c’è una «incompatibilità sostanziale», che si esprime nella contrapposizione proprio tra collettivismo e pluralismo: «Rispetto all’ortodossia comunista il socialismo è democratico, laico e pluralista. Leninismo e pluralismo sono termini antitetici; se prevale il primo, muore il secondo».
In questo senso, nel preparare il Vangelo socialista – testo fondamentale nell’evoluzione politica del Psi – suggerì a Bettino Craxi (il consigliere aveva trovato il suo principe) il recupero di Proudhon, perché il filosofo e attivista francese – nella seconda parte della sua attività politico-teorica – aveva convintamente riconosciuto come la proprietà privata sia il presupposto fondamentale per la conservazione delle libertà personali e politiche. Anche questo richiamo suonava, nella cultura comunista allora predominante, come un vero e proprio reato di lesa maestà, un sacrilegio, e questo perché Marx – nella Miseria della filosofia – aveva riservato a Proudhon un ruvido trattamento.
Il giornalista americano Christopher Emsden – in un commento all’omicidio di Marco Biagi – definì il professore bolognese caduto sotto i colpi delle Br come «un intellettuale nel senso normale della parola – cioè una persona che ha a che fare con le idee (e che può anche cambiare idea) – e non certo nel senso in cui tale parola viene impiegata comunemente nella stampa italiana, in riferimento a celebrità che hanno una reputazione culturale e sono fedeli all’altisonante retorica, presentata come assai raffinata, della vulgata di sinistra».
La chiosa finale della riflessione di Emsden descrive una dimensione in cui alle famiglie politiche corrispondono altrettante correnti intellettuali, comunità letterarie o scuole accademiche, e sono le cieche appartenenze e le affiliazioni a garantire la posizione sociale, l’accettazione delle idee e, attraverso la lottizzazione delle istituzioni culturali – dalla Rai agli Istituti di cultura all’estero – persino la carriera stessa degli intellettuali che ne fanno parte. E, nel nostro Paese, da decenni, è stata proprio la sinistra a riuscire gramscianamente nell’occupazione della maggior parte delle casematte della cultura (nonché della giustizia).
In questo contesto – e Pellicani lo sapeva bene, ma non ha mai sacrificato la sua libertà a queste logiche – le appartenenze erano stabili: dalla culla alla tomba, le presunte infedeltà si pagavano care, i passaggi da un gruppo culturale all’altro difficili e clamorosi. Da qui i meccanismi di esclusione propri dell’Italia della Prima Repubblica e che oggi si ripetono nella richiesta di costante e pedante adesione alla vulgata del politicamente corretto.
Anzi, la capacità di mobilitazione dell’intellighenzia di sinistra, arriva persino a contestare i propri esponenti politici, perché considerati troppo concilianti, troppo disposti a lasciare che il verdetto delle urne trovi riscontro in un governo accettato da tutti. Pellicani, che a differenza di molti socialisti, rimase nell’alveo del centrosinistra (nonostante, già dalla fine degli anni ottanta, assieme a Lucio Coletti, era stato tra i primi a dialogare con il Polo escluso), fu duramente contestato anche per le sue critiche ai Girotondi e alla loro deriva giustizialista.
A questo punto dovremmo chiederci come mai le simpatie politiche degli uomini di cultura e degli esponenti delle professioni liberali che hanno votato per il centrodestra – e le sostengono apertamente – non pesano, nel dibattito politico, quanto quelle della sinistra? Perché le loro simpatie politiche rimangono un fatto individuale ed essi non riescono mai a serrare i ranghi? Questo sarà uno dei temi centrali dell’evoluzione politica del nostro Paese nel momento in cui avremo sempre più bisogno di intellettuali impegnati a tempo pieno nell’elaborazione delle proposte da sottoporre liberamente all’attenzione dell’opinione pubblica, trasformandole in articoli, slogan, e messaggi pubblicitari, commentando e interpretando la cronaca in chiave politica.
Per concludere, la grande lezione di Luciano Pellicani è stata quella di ritenere che i problemi della nostra contemporaneità attengono tanto alla dimensione delle scelte politiche quanto a quella dei principi, e come di fatto sia stato l’Ordine nato dalla fine della Seconda guerra mondiale (fatto di democrazie liberali in grado di sostenersi reciprocamente e dotate di un’economia mista) a sanare la grande frattura della modernità, riconciliando la democrazia stessa con il capitalismo. La sfida del futuro sarà quella di riuscire “a rimettere in forma” questo sistema, la sua manutenzione. Si tratta di una consapevolezza fondamentale che dovrà accompagnarci nella difficile ricostruzione post-Covid19 per evitare di cedere al richiamo di sirene e chimere che propongono seduttive, semplicistiche e assai pericolose scorciatoie.