L’ultima chiamata di Trump ai suoi: “Il 6 gennaio tutti a Washington”. E intanto, al Congresso…
29 Dicembre 2020
di Vito de Luca
«See in Washington, Dc, on January 6th. Don’t miss it. Information to follow!». Insomma, «ci vediamo a Washington, il 6 gennaio. Non mancare. In seguito sarai informato!», è il tweet del presidente americano, Donald Trump, per l’ultima chiamata a raccolta dei suoi, dopo le elezioni presidenziali del 3 novembre, in cui a spuntarla è stato il democratico Biden. Già, perché nel giorno della Befana nella capitale Usa si riunirà il Congresso per ratificare il voto dell’Electoral College, che ha decretato l’elezione di Joe Biden. Nonostante i 59 ricorsi respinti su 60 presentati dallo staff di Trump, su presunte truffe elettorali del Partito Democratico, non accertati dai tribunali, oltre alla decisione della Corte Suprema di non prendere in considerazione un ricorso inviato dalle autorità del Texas, anche per conto di altri stati, in cui si chiedeva di non tener conto, in sostanza, dei voti inviati per posta.
Ora, anche se Biden è stato eletto dal collegio elettorale, dovrà essere il Congresso a dare formalmente il via libera al successore di Trump, riconoscendo la procedura seguita. E qui ritorna in ballo The Donald, almeno potenzialmente, il quale tenterà di fare pressione sulla Camera dei Rappresentanti, attraverso le centinaia di migliaia di persone convocate via web proprio nelle ore cruciali in cui si riuniranno le entità rappresentative.
Un’altra possibilità per rimanere alla Casa Bianca infatti esiste, seppur remotissima: accadrà se il Congresso dovesse riconoscere che il voto del 3 novembre non è stato chiaro, sostituendosi, di fatto, all’Electoral College. Quando i democratici del Nevada si sono riuniti il 14 dicembre votando per il collegio elettorale a favore di Biden, il vincitore delle elezioni presidenziali dello stato, Shawn Meehan, e i suoi colleghi repubblicani, sono già andati in questa direzione e hanno tenuto una propria riunione, votando per il presidente Trump, in alternativa al vincitore certificato, Biden. In altre parole, hanno creato una lista parallela a quella dei grandi elettori democratici dello stato effettivamente eletti.
Musil direbbe che siamo di fronte ad un’ “azione parallela” nello stato di Kakania, poi miseramente fallito, ma di fatto questa è un’opzione prevista dall’ordinamento degli stati federali solo nei casi in cui fosse accertata una violazione delle procedure elettorali, un’ipotesi finora scartata dai giudici interpellati. Tanto che esperti di diritto elettorale americano hanno esclusa qualsiasi validità sull’iniziativa dei repubblicani del Nevada.
Tuttavia i membri del Congresso, il 6 gennaio prossimo, all’indomani delle elezioni riguardanti i due seggi ancora in ballo per il Senato in Georgia, in cui i repubblicani potrebbero confermare la maggioranza aggiudicandosi almeno uno dei due seggi, potrebbero sollevare obiezioni su una o più liste di elettori. Se un rappresentante e un senatore si opporranno insieme, entrambe le camere delibereranno separatamente e voteranno se accettarlo. Il processo potrebbe avvenire più volte fino a quando il Congresso non accerti che Biden ha ottenuto almeno 270 voti elettorali, la soglia necessaria per salire il 20 gennaio alla Casa Bianca.
Tra l’altro, non è stato solo il Nevada ad organizzare una riunione “parallela”, ma altri stati lo hanno seguito: il Wisconsin, l’Arizona, la Pennsylvania, la Georgia e il New Mexico. Nel Michigan, invece, i leader di stato del partito repubblicano sono stati in gran parte assenti in occasione di una riunione convocata per stilare una lista alternativa a quella di grandi elettorali democratici, tant’è che, è stato poi specificato dai repubblicani, al limite verrà fornita una lista aggiuntiva e non sostitutiva.
In più, va ricordato che le rassicurazioni da parte dei funzionari statali e federali, sul fatto che si sia trattata di un’elezione regolare, il 3 novembre, non sono bastate, in quanto il 77% dei repubblicani ha affermato che la vittoria di Biden «è dovuta ad una frode», secondo un sondaggio condotto il mese scorso dal Monmouth University Polling Institute. Nel frattempo, la fiducia degli elettori democratici e indipendenti nelle elezioni è aumentata dal 68% al 90% e dal 56% al 60%, rispettivamente da pre-elettorale a post elettorale. «Ci sono prove sufficienti per far pensare a 74 milioni di americani che questa elezione è stata rubata», ha rincarato la dose Anthony Kern, un membro repubblicano della Camera dei Rappresentanti dell’Arizona ed elettore statale.