L’ultima cosa che vogliono gli Usa è una rivoluzione a Teheran
17 Giugno 2009
di Robert Kagan
La sommossa generata dalle elezioni della settimana scorsa in Iran ha rimescolato in modo interessante il dibattito sulla politica estera che si sta svolgendo in questi giorni negli Stati Uniti. I sostenitori del presidente Obama che, fino a poco tempo fa, imprecavano contro la “Freedom Agenda” dell’amministrazione Bush e che insistevano su un nuovo “realismo”, tutto a un tratto si sono ritrovati a fare il tifo per la libertà e la democrazia in Iran. E nel loro desiderio di attribuire tutte le cose belle che avvengono al lavoro di Obama, gli è stato persino suggerito che il fermento in Iran è dovuto agli appelli pubblici rivolti da Obama agli iraniani e ai musulmani in generale.
Se fosse così, sarebbe una delle grandi ironie della storia. In verità, il presidente americano non ha mai voluto far scoppiare un scompiglio politico del genere in Iran, né tantomeno incoraggiare gli iraniani a scendere in piazza. Il fatto che la popolazione stia manifestando in Iran non è una buona notizie ma, al contrario, una sgradita complicazione nella sua strategia che mira a intraprendere e ad ottenere un riavvicinamento con il governo iraniano sulla questione nucleare.
Si supponeva che una delle grandi innovazioni dell’amministrazione Obama nei suoi rapporti con l’Iran fosse proprio l’aver deliberatamente accettato la legittimità del governo di Teheran. Nella sua prima mossa d’apertura diplomatica, durante il Capodanno persiano dello scorso marzo, Obama si era rivolto direttamente ai governanti iraniani, una svolta notevole che lo ha distinto dalla abitudine di George W. Bush di parlare direttamente al popolo iraniano ignorando i suoi governanti. In quella occasione, Martin Indyk – uno dei funzionari di Clinton – evidenziò che le parole utilizzate da Obama erano state programmate con attenzione “per dimostrare il riconoscimento del governo iraniano”.
Questo approccio è sempre stato un elemento chiave del “Grand Bargain” con l’Iran. Gli Stati Uniti hanno dovuto offrire una serie di garanzie al regime spiegando che non avrebbero più sostenuto le forze dell’opposizione e non avrebbero cercato in alcun modo di ottenere la destituzione del regime. Alla base di questo atteggiamento c’era l’idea che se Washington avesse continuato a incoraggiare l’opposizione al governo, gli Stati Uniti difficilmente avrebbero potuto aspettarsi che il regime iraniano negoziasse su questioni essenziali relative alla sicurezza nazionale, come il programma nucleare. Obama ha dovuto prendere una decisione, e l’ha fatto. Questa presa di posizione è stata ampiamente apprezzata e considerata una svolta “realistica” nei confronti dell’idealismo donchisciottesco e controproducente dell’amministrazione Bush.
Sarebbe sorprendente se adesso Obama si allontanasse dalla sua strategia realista e in effetti è proprio quello che non ha fatto. La sua risposta estremamente cauta nei confronti dell’esplosione di rabbia popolare verso il regime iraniano è stata ampiamente fraintesa, perché rifletterebbe la preoccupazione che se l’America abbracciasse con troppa convinzione l’opposizione di Teheran ne uscirebbe danneggiata e anche perché Obama vuol cancellare l’immagine dell’America come “moralizzatrice”. (Obama stesso ieri ha affermato di non voler dare l’immagine che gli Stati Uniti vogliano intromettersi nelle cose iraniane).
Ma i calcoli di Obama sono molto diversi. Qualsiasi siano le sue simpatie personali, se la sua intenzione è di mantenersi fedele alla sua strategia originale, allora il presidente non può avere alcun interesse nell’aiutare l’opposizione. La sua strategia nei confronti dell’Iran, quindi, obiettivamente, lo mette a fianco degli sforzi compiuti dal governo di Teheran per ritornare non appena possibile alla normalità, piuttosto che con gli sforzi dell’opposizione di prolungare la crisi.
Non è che Obama preferisca una vittoria di Mahmoud Ahmadinejad. Molto probabilmente sarebbe stato più felice di fare affari con Mir Hossein Mousavi, anche se c’erano poche ragioni per pensare che Mousavi avrebbe adottato un approccio diverso sulla questione nucleare. Ma una volta che Mousavi ha perso – in modo giusto o ingiusto – obiettivamente Obama non ha avuto alcun interesse di utilizzarlo a proprio favore o nei confronti dei suoi sostenitori. Se in qualche modo apparisse che Obama stia cercando di dare il suo appoggio all’opposizione iraniana, il presidente sembrerebbe anche ostile al regime ed è proprio quello che vuole evitare.
Attualmente la politica di Obama è di lasciarsi al più presto alle spalle le controversie sulle elezioni in modo da poter dare inizio quanto prima i negoziati con il governo del rieletto Ahmadinejad. Tutto questo sarà molto difficile se le proteste dell’opposizione continueranno e se il governo di Teheran apparirà instabile o troppo brutale da farci affari. Quello di cui ha bisogno Obama è un ritorno rapido e sereno alla pace, non un fermento continuo. Il suo obiettivo dovrebbe essere quello di sgonfiare l’opposizione, non d’incoraggiarla. E, in linea di massima, è proprio quello che sta facendo.
Se tutto questo vi disturba non preoccupatevi perché è proprio la sensazione che dovreste provare. La cosa peggiore di tutto questo approccio è che probabilmente Obama non riuscirà a impedire agli iraniani di ottenere l’arma nucleare. Ed è proprio questo il significato della parola “realismo”. E’ la ragione che spinse Brent Scowcroft ad alzare una coppa di champagne e brindare con i leader cinesi sulla scia degli avvenimenti di Piazza Tienanmen. E’ anche la ragione che convinse Gerald Ford a non incontrare Alexander Solzhenitsyn al culmine del periodo della distensione.
Tradizionalmente i Repubblicani sono sempre stati meglio dei Democratici in questioni come questa, nonostante siano stati ricompensati di rado dagli americani alle urne, come attestano Ford e George H. W. Bush. Vedremo se, mentre cerca di migliorare i rapporti con un regime sgradito, il presidente Obama dimostrerà di avere tanto sangue freddo da non cadere vittima del suo stesso destino politico.
Robert Kagan è senior associate del Carnegie Endowment for International Peace
Tratto da The Washington Post
Traduzione di Fabrizia B. Maggi