L’unica novità della convention del Pd è Franceschini che attacca D’Alema

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L’unica novità della convention del Pd è Franceschini che attacca D’Alema

12 Ottobre 2009

E’ il congresso più breve della storia della politica italiana, un rito abbreviato da 160 minuti compresi gli adempimenti burocratici. Ma anche la prima convention che si conclude senza l’acclamazione del vincitore e con il rinvio all’appuntamento del prossimo 25 ottobre quando dai gazebo democratici uscirà il nome del segretario. Una convocazione popolare che dovrebbe riuscire ad eleggere l’uomo-guida del Partito Democratico e i mille membri dell’Assemblea Nazionale, attraverso le liste collegate, e che potrebbe mettere fine alla lunghissima procedura scelta dal partito di Via del Nazareno per regalarsi un leader. Il condizionale è d’obbligo visto che, qualora nessuno dei candidati dovesse superare il 50%, sarebbe l’assemblea nazionale ad assumersi l’onere della decisione finale. Ma questa ipotesi appare piuttosto improbabile e lontana.

Quel che è certo è che la partita per la segreteria non ha ancora emesso il suo verdetto e non ha ancora consegnato, seppure virtualmente, la vittoria a uno dei due candidati forti. Nelle previsioni doveva essere il congresso degli iscritti che incoronavano Pierluigi Bersani. Alla fine l’applausometro ha detto altro, con Dario Franceschini che ha vinto la partita del consenso sonoro e ora si avvicina rinvigorito allo sprint finale di queste ultime due settimane di campagna elettorale. Un “entusiasmo delle minoranze”, come liquida il tutto Rosi Bindi, che però non può che far piacere ai franceschiniani che escono ringalluzziti dall’appuntamento del Marriott di ieri e dimenticano volentieri lo scorciatoie utilizzate dal segretario uscente per strappare il riconoscimento della platea. Sì, perché Franceschini sceglie i toni del comizio e sceglie il canovaccio più facile e rodato, recitando il consueto rosario antiberlusconiano come rompighiaccio retorico con cui poi andare dritto all’attacco di Massimo D’Alema. È a lui che pensa quando attacca «chi, anche tra di noi, ripete che l’anti-berlusconismo rischia di sconfinare in un sentimento anti-nazionale» e invece, urla il segretario, «la gente vuole più opposizione, non meno!». È a lui che pensa quando ironizza sulla «sapienza tattica che ci porterà a consegnare un pezzo di centro alla destra e ci condannerà per sempre a una vocazione minoritaria. Alla fine di tattica si muore». È a lui, e in questo caso lo chiama per nome, «a Massimo, a D’Alema dico che se vinco io non toglierò al popolo delle primarie il diritto di scegliersi il segretario». Una scorciatoia oratoria che gli vale la standing ovation dei suoi sostenitori e fa scattare un comprensibile malumore dalle parti dell’ex presidente del Consiglio, uno dei pochi big che ha scelto di essere presente – di Prodi, Veltroni, Rutelli, Bassolino e Amato neppure l’ombra – e di non snobbare l’evento.

Diversi i toni usati da Bersani che si rivolge al cervello e non allo stomaco dei delegati ma non riesce ad entusiasmare la platea. L’ex ministro prova a parlare da segretario già eletto, a dibattere di questioni sociali ed economiche, a sciorinare e illustrare un progetto politico. Propone un Pd dai tempi lunghi che abbandoni il gioco in difesa.  “Adesso abbiamo tre cose da fare – dice Bersani, che incassa il sostegno del segretario della Cgil, Guglielmo Epifani – rinnovare e rafforzare noi stessi, riaprire il cantiere dell’Ulivo con movimenti politici e civici disposti al dialogo con noi. Lavorare per un quadro ampio di alleanze politiche”.

Naturalmente c’è anche il terzo incomodo, Ignazio Marino, che cita Aldo Moro, Giorgio Amendola, Che Guevara, il cardinale Martini: «Non siamo solo una goccia che nuota nella corrente della società, dobbiamo decidere dove la società debba andare» e batte sulla laicità, sulla scuola e la ricerca e sul rinnovamento della politica. La sua parabola di “testimonianza”, però, finisce con il discorso e la platea del congresso. Ora si passa allo sprint finale e la corsa a due verso la segreteria si consumerà sulle piazze e nei dibattiti televisivi, quello ufficiale organizzato da Youdem e quello informale promosso dalle Iene. Sullo sfondo c’è anche la disputa sul quadro delle alleanze. Se per Bersani bisogna riaprire il cantiere dell’Ulivo con movimenti politici e civici disposti a dialogare con il Pd e non si può escludere il dialogo con l’Udc, Franceschini si muove in un’altra direzione. Concorda sull’esigenza di alleanze ampie ma contesta “l’idea di appaltare il voto moderato al centro, magari aiutandolo a nascere, perché così viene meno la ragione sociale del Pd”. Le differenze, insomma, sono in campo. Resta a questo punto da valutare il responso delle urne, con le primarie che non saranno un’operazione di ratifica, come erano state in passato, ma uno strumento reale di selezione del segretario del partito. Un appuntamento che, secondo i sondaggisti, potrebbe ribaltare il verdetto del congresso e consegnare il partito a Dario Franceschini soltanto in presenza di un’affluenza davvero fuori dalla norma e dalle previsioni. Una chiamata alle urne che i protagonisti delle primarie visti ieri non sembrano in grado di assicurare.