L’unica soluzione alla crisi dell’Euro è una “more perfect Union”

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L’unica soluzione alla crisi dell’Euro è una “more perfect Union”

L’unica soluzione alla crisi dell’Euro è una “more perfect Union”

26 Maggio 2012

L’Unione Europea si trova di fronte a delle sfide economiche molto serie: l’eccessivo indebitamento di alcuni stati membri (tutti quei paesi che hanno un debito pubblico superiore al 90% del Pil), una crescita anemica che rende il debito insostenibile (l’ultimo bollettino Eurostat celebrava una crescita dello 0.0% nel primo trimestre dell’anno) e dinamiche sociali molto tese (una disoccupazione giovanile cresciuta del 50% negli ultimi 5 anni fino al 22%, con picchi superiori al 45% in Grecia e Spagna). Lo status quo è insostenibile ed è ovvio che l’unica soluzione permanente sia politica. L’overdose di summit non ha portato alcun beneficio tangibile.

La situazione in cui ci troviamo è figlia tanto di una miopia politica di cui l’attuale architettura dell’Unione soffre (fare un’unione monetaria ma non fiscale), quanto della perdita di competitività di molti paesi europei i quali hanno vissuto ben al di là delle priorie possibilità grazie ai bassi tassi d’interesse dopo l’introduzione dell’Euro (l’Italia si è concessa il lusso di far crescere gli stipendi pubblici del 25% oltre le proprie capacità dall’introduzione dell’Euro, finanziando il tutto con emissioni di nuovo debito e risparmi sulla spesa per interessi derivanti da livelli di spread più bassi).

Un Paese con un debito pubblico sopra al 100% del PIL (e nell’area Euro sono quattro i paesi con questo problema) e senza un piano chiaro di rientro del debito (cioè una riduzione permanente sotto l’80%) e di rilancio dell’economia (cioè meno spesa pubblica non produttiva e meno tasse) ha davanti a sè il destino dell’Argentina, un inesorabile declino fatto di ulteriori trasferimenti forzosi di ricchezza dai cittadini allo stato e di false illusioni (i dati statistici che fornisce l’Argentina sono meno credibili di quelli Greci).

Un Unione che si è persa nella crisi, non riuscendo a compensare i propri squilibri interni e non riuscendo nemmeno a far rispettare le proprie regole, non riesce a attrezzarsi per gestire le emergenze in corso (il mercato unico rende problemi europei molto nazionali, come il default Greco) e rischia scenari molto complessi da gestire come corse ai depositi e nazionalizzazioni forzose di banche rimaste senza liquidità.

E la colpa non è dei misteriosi speculatori ma di chi ci ha messo in questa situazione, non sfruttando i benefici  dell’Euro per completare il lavoro di riforma dell’architettura economica e fiscale dell’Unione per posizionarla di fronte alle sfide globali.

L’Unione ha avuto alcuni risultati eccellenti, dalla creazione del mercato unico alla transizione verso una valuta unica, ma si è voltata dall’altra parte davanti a situazioni insostenibili come l’eccessivo debito di alcuni paesi (di fatto una violazione perenne dello spirito del Trattato di Maastricht), i bilanci falsificati di altri, e la creazione di bolle sia finanziarie che reali generate dai tassi d’interesse troppo bassi. L’impressione è quella di una classe dirigente che si è creduta impermeabile alla realtà e che ha ritenuto la sua creatura, l’Ue, come immune da crisi, anche quando le crepe sull’edificio dell’Euro erano abbastanza evidenti.

L’elemento più preoccupante però sono le soluzioni suggerite, come se la perdita di competitività strutturale e l’eccessivo indebitamento si risolvessero con più autostrade (finanziate ovviamente con nuove tasse e nuovo debito visto che di tagli alla spesa improduttiva ancora non si vede molto) o spostando il problema sulle spalle della BCE.

Il premio però lo vincono i più conservatori, come Tsipras in Grecia, che chiamano austerity una riallineamento con la realtà della spesa pubblica, appellandosi a Keynes, che dubitiamo conoscano davvero, come scusa per non ammettere che tagli alla spesa improduttiva (la spending review andrebbe fatta ogni legislatura, non annunciata il giorno prima di un default) sono non solo inevitabili (si possono spendere solo i soldi che si hanno) ma necessari, insieme a riforme strutturali, per evitare un declino altrimenti inarrestabile.

L’idea che lo status quo non possa essere alterato, ma addirittura che debba essere finanziato dagli altri paesi dell’Unione non è solo economicamente e moralmente sbagliato ma perpetua anche l’illusione che il modello sociale europeo possa funzionare. Se un giovane su cinque nell’Unione non ha lavoro, e verosimilmente non lo troverà a breve, non è colpa della Merkel, ma di una classe dirigente che ha reso l’Europa meno competitiva negli ultimi anni.

La soluzione in realtà è una sola e, come già sottolineato da altri prima di me (Randal Henning e Kessler per Bruegel), è una more perfect Union. La lezione a cui dobbiamo guardare è quella di Alexander Hamilton, che in una situazione  molto simile (con la Carolina del Sud nel ruolo della Grecia e della Virginia in quello della Germania, e con Francoforte nel ruolo di moderna Washington D.C.) trovò una soluzione politica ad un problema tecnico. Il lavoro di Hamilton ha creato un’Unione capace di funzionare in maniera efficace per più di 200 anni, affrontando crisi economiche e disequilibri interni notevoli.

I passi da fare sono chiari, dalla rinegoziazione del debito per gli stati troppo indebitati, ad una liquidità strutturale immessa nel sistema economico reale (che è la vera lezione da imparare rispetto alla crisi del ’29, come insegnano Friedman e Bernanke), ad una spending review degna di questo nome, ad un fiscal compact veramente efficace ed a delle riforme pro-crescita non più timide (migliorando il mercato unico con liberalizzazioni).

Quello che serve ora è un Alexander Hamilton Europeo, e, nonostante il dibattito nell’Unione si stia avvicinando ai temi affrontati da Hamilton, basta ascoltare con attenzione le parole pronunciate ieri da Draghi.