L’Unicef rimpiange l’eccellenza delle scuole di Saddam
05 Agosto 2007
Intervistato dal Corriere della Sera, il vicedirettore dell’Unicef Dan Toole ha dichiarato che ai tempi di Saddam Hussein “l’istruzione irachena era ad alti livelli”. Se è per questo anche quella nazista funzionava alla grande, gli studenti migliori denunciavano perfino i loro genitori poco collaborativi. Dicono che l’Albania enverista, al massimo del suo fulgore maoista, laureasse fior di chimici e ingegneri. Il problema è sempre stato cosa s’insegna nelle scuole, non solo la qualità e la quantità dell’insegnamento.
Uno scrittore raffinato come Peter Handke considera fuorviante paragonare Hitler a Saddam e figuriamoci al mitico Enver Hoxha, ma allora, se è vero che ogni totalitarismo ha una sua specificità, a quale dei tre dittatori si può attribuire la frase: “Oh nostro coraggioso presidente, siamo tutti soldati che difenderanno i confini per te, imbracciando le armi e marciando verso il successo…”? La risposta esatta si trova in un libro di scuola elementare baathista, ma non sfigurerebbe in altre pedagogie tiranniche. Come dire, ecco un buon esempio di test a risposta multipla.
Nel 2003, John Tierney lavorava come corrispondente del New York Times da Baghdad. Racconta che in storia e geografia i bambini imparavano a memoria tutte le guerre vinte da Saddam, ma negli atlanti non c’era posto per lo Stato d’Israele; in matematica, poi, era indice di maturità risolvere problemi come questo: “calcola quanti nemici abbiamo abbattuto se la nostra eroica contraerea ha colpito quattro aerei con tre membri di equipaggio l’uno”. Magari Handke potrebbe indovinare la nazionalità dell’“equipaggio nemico” visto che il test stavolta ha una risposta chiusa.
La riforma Bottai introdusse dei miglioramenti decisivi nella scuola italiana e fascista, come la circolare sulla “Difesa della Razza”. In effetti la segregazione scolastica è sempre stata un metodo educativo perfetto se non vengono messi in discussione i suoi presupposti identitari. Dopo la guerra in Bosnia abbiamo assistito a numerosi casi di studenti che venivano separati in classi diverse secondo la loro appartenenza etnica, razziale e religiosa; diplomati a pieni voti, e orgogliosi della supremazia storica di una determinata comunità sulle altre.
Fino al 2003, Tareq Aziz era il simbolo della (presunta) benevolenza di Saddam verso i suoi sudditi di fede cristiana, il ministro del dialogo che piaceva tanto all’Occidente, ma che non si azzardò a muovere un mignolo quando nelle scuole irachene iniziarono a circolare testi offensivi contro le religioni diverse dall’Islam, compresa la sua. A questo punto è chiaro che “il buon livello” di cui parla Toole è un semplice dato statistico, un valore numerico di riferimento e nient’altro.
Il vice dell’Unicef sostiene che per colpa della guerra la mancanza d’insegnanti è diventata una delle principali cause del disastro scolastico iracheno, ma prima di assecondarlo con un riflesso pavloviano ragioniamo un attimo sulle condizioni della classe docente irachena all’epoca della piena occupazione, quando c’erano scuole di “alto livello” ed era sufficiente una frase di troppo per essere arrestati e perseguiti come untori. Negli anni ottanta Rahman Al Jebouri studiava all’università di Baghdad, scrisse un racconto goliardico sulla guerra all’Iran che gli costò quattro anni di galera. Ramhan fu scarcerato solo dopo aver firmato una “dichiarazione di fedeltà” a Saddam, con la promessa di rinunciare a scrivere, per sempre.
E’ innegabile che oggi gli studenti iracheni vengono uccisi, sono costretti a fuggire oppure a studiare in casa con i genitori per non essere scoperti, ma non sono le truppe della Coalizione che sparano colpi di bazooka nei giardini delle scuole e forse sarebbe il caso di guardare un po’ meglio alle responsabilità complessive del dopoguerra iracheno: il 16 gennaio 2007, i fedelissimi di Saddam hanno fatto esplodere una bomba all’università di Mustansiriyah, il più antico ateneo della capitale, un bel botto per festeggiare le esequie di al Tikriti e al Bander, ex gerarchi del regime. Sessanta morti e centinaia di feriti.
Sarà vero che i saddamiti più nostalgici stanno scendendo a più miti consigli con la ‘tribù’ americana, ma nelle università continuano a circolare strani volantini in cui si chiede aiuto alla “gente onesta” di Baghdad, visto che “la nostra scuola è stata abbandonata a se stessa”. Questi sono i jihadisti, che non si arrendono, anzi, hanno ambizioni sindacali, vorrebbero rifondare l’istruzione irachena da zero. Sappiamo come. L’opuscolo viene recapitato a casa dell’interessato in busta chiusa, con dentro un bel proiettile di Kalashnikov tutto lucidato: “Caro professore, vogliamo una totale collaborazione”.
Non basteranno i cento milioni di dollari già spesi dall’agenzia americana Usaid e nemmeno i fondi messi a disposizione dall’Unicef per rimettere in piedi la scuola irachena. Non si tratta semplicemente di “edilizia scolastica” come pensano i manager del “Acumen Fund”, il fondo filantropico di cui è stato presidente Toole prima dell’Unicef. Business e i benefici sociali sono ancora insufficienti per sconfiggere il terrore. “Vogliamo totale collaborazione”. Allora, di chi hanno paura gli insegnanti di Baghdad?