
L’Unione europea non c’è più

10 Aprile 2020
Qui Roma, l’Alfa e l’Omega dell’Unione Europea, oramai autocondannata ad espressione burocratica, terrina dove impazzisce la maionese dell’incompiuto. Qui Roma. 2017, bandiere, strade sorvegliate, leader europei in sfilata per celebrare il 60esimo del Trattato Cee, parlare al futuro e bla bla bla. Qui Roma, 2020. Terra lasciata sola nel mordere del morbo, esercizio per il tiro al bersaglio di pregiudizi culturali e stampa ostile. Lo spot della tv francese che gettava fango sui pizzaioli italiani, raffigurandone uno mentre sputa sull’impasto dopo un orribile colpo di tosse, alludendo così ad Paese untore ed imbroglione. Gli articoli della stampa tedesca che dilaniano l’Italia a suon di stereotipi mafia, mandolino, sole e mare. Un atteggiamento, questo, punto di spinta per una disgregazione divenuta evidente con il Coronavirus. Appena il morbo ha esteso il suo cono nero, è emersa l’incapacità dell’Unione nel fornire una risposta univoca, sia a livello sanitario, sia a livello economico. Di fronte alla Prova si è allargato il solco tra Paesi del Nord e Paesi del Sud, il derby attorno al rigorismo, l’abdicazione al principio di ricostruzione economica di un modello in fuorigioco già dalla crisi del 2008.
E così riaffiora il Grande Aborto nella storia dell’integrazione europea, ossia il processo costituente partito male e finito nel nulla. Bocciato dai Paesi cui è stato sottoposto ad un vaglio popolare e annacquato in un Trattato di Lisbona che è una summa di norme, peraltro mal applicate. Basti pensare che, all’articolo 168, il testo disciplina un’attività di coordinamento europeo per la prevenzione e l’ eliminazione delle fonti di pericolo per la salute. Non è avvenuto. Né quando le notizie provenienti da Wuhan chiamavano ad un’iniziativa sovranazionale immediata ed efficace. Né quando l’esplosione dei casi in Lombardia definivano la dimensione globale della minaccia, preparando alla pandemia. Una Costituzione non è né può essere un cumulo di commi, ma la solenne, e laboriosa, fissazione di principi ed obiettivi in cui un popolo si riconosce e a cui un popolo tende. Principi attorno ai quali si delinea l’esercizio dei poteri, anche in un quadro di emergenza come quello attuale. Abbiamo assistito per settimane ad un feroce dibattito sull’impostazione comunitaria delle misure economiche da adottare e ne è generato un accordo sul Mes a due velocità che non scongiura i rischi di svuotamento di sovranità per chi dovesse accedervi per la parte che non riguarda le spese sanitarie. Evidentemente, a nulla è valsa la lezione della Grecia sugli effetti del memorandum sulle vite dei cittadini. Evidentemente, l’umanesimo europeo viene invocato solo quando si tratta di incoraggiare l’accoglienza indiscriminata agli immigrati. Evidentemente non c’è una codificazione formale del principio di solidarietà.
E’ stato un grave errore aver lasciato trascorrere gli anni ’90, senza impostare una bussola comune con cui affrontare la globalizzazione. Ora è maledettamente tutto più rovinoso, agitato, veloce. Perché la globalizzazione ha presentato sì le sue opportunità, ma anche le sue controindicazioni, e le seconde hanno sopraffatto le prime: le grandi crisi economiche, gli squilibri nel confronto/scontro tra modelli incomparabili di mercato del lavoro, l’immigrazione con conseguenti mescolanze culturali, la pandemia. L’Ue che arriva alla crisi del Coronavirus è solcata da pulsioni moralistiche nei rapporti tra Stato e Stato, ha dimostrato più volte i guasti del laicismo diffuso nelle politiche di integrazione, emerge per agglomerati di zona. Dal patto di Visegrad sino a quello di Aquisgrana per non dimenticare la nuova Lega Anseatica. Ora, quindi, è tutto più difficile. Forse irreversibile.