Ma Berlusconi su Alitalia aveva ragione
18 Marzo 2008
Berlusconi aveva ragione sull’Alitalia. Il punto non è che l’Italia debba avere una sua compagnia di bandiera come coperta di Linus o vestigia di gloria patria. La questione è di lungo corso ed abbraccia la devastante decisione, presa da un gruppo di notabili boiardi di Stato, fra i quali Prodi, tutti alleati della finanza internazionale, i cosiddetti rappresentanti della “società civile”, i quali, da Tangentopoli in avanti, hanno avuto un solo obiettivo. Balcanizzare il Paese per poi svenderlo al miglior offerente. Il caso Alitalia si inserisce in questo disegno, a distanza di circa vent’anni. Il nodo, dunque, non è affatto finanziario ed economico, ma corposamente politico.
In Italia non abbiamo più niente di pubblico in grado di stare sul mercato e di fornire servizi all’altezza di un sistema-paese come il nostro. Ecco, dunque, che gli assetti infrastrutturali diventano oggetto di appetiti insaziabili e i nuovi, si fa per dire, animal spirits avanzano senza indugio verso la preda.Ovvio: le economie crescono e competono avendo forti assetti infrastrutturali. Solo in Italia, la politica, avendo perso, ha patteggiato, avendo come clausola le censura di questa verità (come di altre verità).
Alitalia non sta per essere svenduta ad Air France, ma sta per essere regalata ad Air France. Aveva allora ragione Berlusconi quando poneva la questione della compagnia di bandiera come tale ed ha ragione e molte ragioni da spendere Formigoni quando definisce l’avanzata delle truppe cammellate di Spinetta una “proposta umiliante che costerà cara al Paese”.
Ripeto: l’italianità come vessillo ideologico non c’entra niente e fa la parte del leone soltanto nelle discussioni dei liberisti nostrani che straparlano di free mareket in un mondo finanziario ridotto alla gestione del governo più forte del mondo e della Fed, che non solo abbassa ancora i tassi, ma crea linee di credito per migliorare la capacità degli operatori di versare risorse al settore delle cartolarizzazioni. Cioè, in sostanza: mercato governato dalle risorse pubbliche, con buona pace di Rothbard e della “fallacia (permanente) del settore pubblico”. Evidentemente, ci sono più cose in cielo e in terra di quante riescano a rappresentarne i fidi giannizzeri del fantasmatico “free market”.
L’Alitalia è segnata da questa dinamica strutturale, favorita dal suicidio infrastrutturale perpetrato da vent’anni a questa parte e non casualmente è un decennio che la nostra compagnia di bandiera deve presentare i libri al giudice, decretando il suo fallimento, e non lo fa. Così Air France può intervenire e, come in qualunque asta rionale, comprarsi a prezzi risibili tutto un complesso di servizi, infrastrutture, snodi, risorse umane, tutto: pagando 138 milioni una quota che ne vale 140.
Fu Cimoli a cementare gli accordi con Air France, dopodichè uscì dalla scena con una liquidazione da nababbo, perché in questo Paese chi distrugge le proprietà nazionali viene premiato. La politica dei boiardi ha vinto e la politica delle risorse pubbliche ha perso. E’ entrata l’economia virtuale,e quella dei bollini finanziari e delle banche che ingoiano le altre banche, e siamo arrivati a questo punto.
L’intera classe politica, dopo Tangentopoli, è ridotta a spettro mediatico, nella migliore delle ipotesi, ergo vince chi ha più soldi, anche in assenza di un vero piano industriale (che Air France non ha, di fatto). Come si fa a ritenere decente una proposta che impone di svalutare le azioni Alitalia a 10 centesimi e di far corrispondere una proporzione di 160 a 1 tra le azioni Alitalia e quelle di Air France. Non solo. Air France prende proprio tutto, inclusi i soldi dello Stato per la cassa integrazione delle 1600 unità in esubero. Dunque, i dipendenti devono oggi cooperare alla cosiddetta “ristrutturazione” di Alitalia, sic et simpliciter. Se le cose dovessero arrivare all’ok finale, questo sarebbe l’ennesimo, durissimo, colpo al sistema infrastrutturale italiano, nel senso che perderemmo anche questo, in un processo di colonizzazione sistematica, che sembra non turbare molto il sonno soprattutto dei nuovi adepti alla religione mercatista senza mercato (perché, ripeto, nel mondo, in questa crisi, vige lo State market). Stefanato sul “Giornale” parla giustamente di un “grande pacchetto regalo” che i francesi intascano senza colpo ferire, “nel quale ogni asset è virtuale, con aerei, terreni e diritti trattati come una “manette” alle aste dell’Hotel Drouot, nella quale si vendono cianfrusaglie alla rinfusa”.
Aver lasciato marcire il fallimento di fatto dell’Alitalia ha condotto a questo punto, ma nel quadro di una subcultura anti-politica e di un trend anti-politico (perché l’anti-politica non nasce solo nei blog e dal “vaff” di Grillo, ma nelle stanze dei bottoni di certa finanza e di certi notabili di quelle determinate corti), perfettamente descritto, seppur in relazione alle conseguenze dello sfascio più che alle cause ed ai protagonisti, da Lorenzo Necci in un libro-intervista del 2002: “ (…) Il problema centrale è che il sistema Italia è sempre meno competitivo nelle sue infrastrutture e i suoi servizi sono sempre più lontani dall’Europa. Vogliamo davvero essere protagonisti dell’Europa oppure dobbiamo solo fare i sarti e i cuochi degli europei?
L’importante è decidere e dirlo, poi bisogna agire di conseguenza. Io ho il massimo rispetto per la moda e la cucina, ma non mi illudo che senza la ricerca, innovazione, infrastruttura il sistema Italia possa avare un futuro” (L’Italia svenduta, a cura di Gianluigi Da Rold, Bietti Storia, Milano, 2002, p. 39). Non casualmente, in un articolo a quattro mani, uscito sulla solita Repubblica, nell’estate del 2004, Giuliano Amato e Carlo Debenedetti, tessevano le lodi del “Made in Italy”, dalla moda alla cucina.
Niente infrastrutture, ricerca, innovazione di prodotto, sistema-paese: tutto ridotto al nichilismo gaio dell’immagine di un’Italia che fa molto comodo ai nuovi colonizzatori, certamente, non dubito, buoni amici degli “intellettuali cosmopoliti” di gramsciana memoria. Gli apologeti del “Made in Italy”, gli affossatori dell’Alitalia.