“Ma che r’è?”. E’ Robert Rauschenberg
02 Novembre 2008
Primo piano: un uomo senza capelli e con i baffi guarda verso la telecamera, osserva qualcosa ma sembra non capire di cosa si tratti, la camera stacca su una coppia di giovani, anche loro guardano in camera, dubbiosi si scambiano occhiate stranite. Altri primi piani: un uomo anziano, una donna di mezza età, un giovane sui trenta, tutti rivolgono lo sguardo verso lo stesso punto, nessuno parla ma le smorfie sono chiare: s’interrogano su cosa sia quel che osservano. Noi dall’altra parte della camera ne sappiamo ancor meno. Poi il primo uomo, quello con i baffi chiede ad un altro in dialetto napoletano: “Ma che r’è?” (ma che cos’è?), l’altro risponde “Boh!”. La camera va in soggettiva e in quel momento finalmente capiamo. Tutti guardano uno strano oggetto appeso al muro: è un’opera d’arte contemporanea perché la voce fuori campo ci dice che è lo spot del Madre, il Museo d’Arte contemporanea Donna Regina di Napoli.
Quella ‘cosa’ dalla forma bizzarra di color acciaio che si intravede appesa al muro è un’opera di Robert Rauschenberg (Mobile Cluster Glut [Neapolitan], 1987) ed è un assemblaggio di un lavandino da ristorante e una porzione di bicicletta raccolti in una discarica di Napoli.
Robert Rauschenberg, morto a 82 anni lo scorso 12 maggio, è stato uno dei protagonisti dell’arte mondiale del XX secolo e per celebrarne la grandissima carriera proprio il Madre di Napoli gli dedica una mostra, già passata dal Museo Serralves di Oporto e Haus der Kunst di Monaco di Baviera.
Nato a Port Arthur, nel Texas, (il vero nome era Milton Ernest Rauschenberg) il 22 ottobre 1925, l’artista di origini per metà tedesche e per metà cherokee, comincia poco più che ventenne ad avvicinarsi all’arte, ma solo quando va a vivere a New York inizia il suo personalissimo percorso artistico.
Lì, in una città in pieno fermento conosce amici Jasper Johns e John Cage, frequenta le gallerie dove può osservare e apprezzare i capolavori astratti degli espressionisti americani (Pollock e De Kooning su tutti) e inizia a lavorare alle serie dei White Painting e dei Black Painting, opere astratte e d’ispirazione minimalista.
La sua fama diviene mondiale già a metà degli anni ‘50 quando crea i primi “Combine Paintings”, quadri nei quali, partendo da un contesto espressionista-astratto, introduce immagini e oggetti presi dal mondo reale (stoffe, ritagli di giornale, fotografie e objects trouvés), rompendo la tradizionale distinzione tra pittura e scultura. Per spiegare il perchè di questa, che allora era una vera e propria rivoluzione, Rauschenberg rispondeva: “Penso che un quadro assomigli di più al mondo reale se fatto col mondo reale”.
Mai sazio di sperimentazioni l’artista dà un’ulteriore svolta al suo modo di operare quando nel 1962, dopo una visita nello studio di Andy Warhol, scopre la tecnica della serigrafia, che gli permette di trasferire sulle sue opere immagini e fotografie con una libertà maggiore nell’uso dei colori e nelle dimensioni rispetto al collage o alle varie tecniche di decalcomania che aveva utilizzato fino a quel momento.
Nonostante il contatto con
Gli anni sessanta portano grandi riconoscimenti, tra cui, nel 1964, il Gran premio internazionale di pittura alla XXXII Biennale di Venezia.
La pittura pian piano si riduce negli anni successivi, quando, lasciata New York per l’isola di Captiva, in Florida, Rauschenberg effettua una ennesima rivoluzione nella sua arte creando lavori sempre più propriamente scultorei che dominano tutta la sua produzione negli anni 70 e 80. Negli anni 90 ormai settantenne, anche se ancora molto produttivo, Rauschenberg è protagonista di grandi retrospettive al Guggenheim Museum di New York al Centre Pompidou di Parigi e alla Tate Modern di Londra.
Nel 2002 viene colpito da un ictus che lo lascia semiparalizzato. Nonostante questo, continua la sua opera e crea lavori di grandissima potenza espressiva. Non è un caso che nel commentare gli otto grandi quadri creati dopo la malattia e visti nello studio del pittore, Calvin Tomkins, critico d’arte del settimanale New Yorker li ha definiti: “i più forti, i più lirici che l’artista abbia prodotto in molti molti anni”.
Lo stesso Tomkins nella sua biografia dell’artista è riuscito a esprimere in poche righe la grandezza di questo personaggio: “Rauschenberg ha collaborato con John Cage e Merce Cunningham alla rivoluzione artistica che ha portato l’Arte ad abbandonare le istituzioni (musei, gallerie, teatri) per diventare centro di un confronto sociale". Anche se, osservandola questa rivoluzione, è difficile che non scappi da dire: “Ma che r’è?”