Ma come può una Costituzione di 60 anni essere ancora un tabù?

LOCCIDENTALE_800x1600
LOCCIDENTALE_800x1600
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

Ma come può una Costituzione di 60 anni essere ancora un tabù?

06 Aprile 2008

La memoria del sessantesimo «compleanno» della Costituzione della Repubblica Italiana fa di quest’anno 2008 occasione di una celebrazione che già si sta rivelando talvolta enfatica e quasi sempre acritica. L’invocato «patriottismo costituzionale» sembra espressione di un processo di mitizzazione della nostra Legge fondamentale, che addirittura la vorrebbe immutabile.

È quanto meno curioso che in un tempo ed in un mondo in cui non si esita, anzi si esorta, a relativizzare la Legge di Dio – rivelata sul Sinai, ma solo pro memoria: il decalogo contiene le esigenze fondamentali della legge naturale, in quanto tale riconoscibile, sebbene non senza difficoltà ed incertezze, dalla retta ragione, e perciò valida erga omnes –, si pretenda quasi di assolutizzare una legge umana. Eppure, c’è chi invoca un «ritorno alla Costituzione», immancabilmente «tradita», la cui piena attuazione – finalmente – avrebbe effetti taumaturgici sulla nostra società e, chissà, sulla stessa esistenza individuale, quasi fosse il «verbo» al principio di ogni cosa.  

Sarebbe facile, ed anche un po’ corrivo, replicare osservando che a sessant’anni, «scalone» o non «scalone», si va in pensione. Ma la questione è evidentemente ben più profonda, e in certo senso più grave.    

Non molto tempo fa, il 15 aprile 1994, un esponente non secondario della storia del cattolicesimo italiano del XX secolo, in particolare del cattolicesimo detto democratico, che ha terminato la sua esistenza terrena con indosso l’abito religioso, Giuseppe Dossetti (1913-1996), indirizzava una lettera al sindaco di Bologna con la quale comunicava l’intenzione di dar vita ai Comitati per la Difesa della Costituzione. Egli, in quello scritto difendeva con inusitata vivacità e partecipazione la perdurante validità della Costituzione per i «[…] suoi presupposti supremi in nessun modo modificabili […] civilmente vitali ma anche […] spiritualmente inderogabili per un cristiano» (in A colloquio con Dossetti e Lazzati. Intervista di Leopoldo Elia e Pietro Scoppola, il Mulino, Bologna 2003, p. 119). C’è da tacere attoniti per riprendere fiato: i presupposti della Costituzione repubblicana non solo immodificabili, ma addirittura spiritualmente inderogabili per un cristiano!

Dopo essermi ripreso, provo a riflettere: come si può giungere a simili affermazioni, peraltro tutt’altro che isolate, tutt’altro che condivise solo da pochi nostalgici?

Delimito così l’area del mio intervento, che non vuole, né potrebbe, essere una critica globale alla Costituzione vigente, che peraltro contiene norme, principi ed istituti recanti un’impronta di naturalità giuridica, sociale e politica che merita di essere conservata. Per sua natura, inoltre, questa rubrica impone di procedere per sintesi, e non è uno spazio che possa essere utilizzato per uno studio di diritto costituzionale, ovvero finalizzato alla ricostruzione del dibattito costituente. Tuttavia, non è impossibile, spero, abbozzare una risposta convincente.

Mi servo anzitutto di uno scritto del professor Gaetano Quagliariello, oggi senatore della Repubblica, sul carattere programmatico della Costituzione, intesa da tanti fin dall’inizio «[…] più come mito rivoluzionario che come aggiornamento […] di patti istituzionali invecchiati». «È […] una concezione del tutto particolare della funzione stessa di una Costituzione: non mero patto costituente con il quale un popolo si riconosce in alcuni valori fondamentali e generalissimi e fissa le comuni “regole del gioco”, ma vero e proprio programma politico di lungo periodo». Di qui, inevitabili, il lamento sulla «Costituzione inattuata», che assurge a vero e proprio «mito politico», il cui presupposto è «quello della Costituzione intangibile», e l’interpretazione della «[…] Carta […] come “rivoluzione promessa”» (Quegli adoratori della Co-stituzione, rivoluzionari e conservatori, Il Foglio Quotidiano, anno I, n. 107, Milano 27-6-96, p. 2).

A chi attribuire tale intentio programmatica, che invero emerge anche ad una lettura superficiale e non specialistica del testo?

Essa è certamente in primo luogo espressione della temperie culturale dell’epoca: appena usciti dall’esperienza del regime fascista (1922-1943) e dalla catastrofe materiale e morale della II guerra mondiale (1939-1945), il desiderio di rifon-are su nuove basi la convivenza sociale era praticamente unanime. Ma, anziché ricorrere alla tradizione nazionale, questa sì «tradita», i contenuti per dar forma a tale desiderio vengono, per così dire, forniti in larghissima misura, benché non esclusivamente, dagli esponenti delle culture al momento egemoni: la cattolica e la social-comunista.

La prima è a sua volta declinata prevalentemente nella versione democratica, che non la esaurisce e ne è una versione particolare, con una lettura specifica della storia contemporanea e dei fenomeni rivoluzionari che l’hanno caratterizzata, a partire dall’epocale evento francese del 1789; la seconda è declinata come un marxismo leninismo corretto e adattato alla peculiare condizione sociale e culturale dell’Occidente, ed in specie dell’Italia, a partire dalla lezione di Antonio Gramsci (1891-1937). Il testo è, da questo punto di vista, emblematicamente controfirmato dal presidente dell’assemblea costituente, il comunista Umberto Elia Terracini (1895-1983), e dal presidente del consiglio, il democristiano Alcide De Gasperi (1881-1954).

Dunque, la «rivoluzione promessa» dalla Costituzione è ispirata prevalentemente dai principi propri del cattolicesimo democratico e del socialcomunismo italiano.

Prima di delinearne un rapido profilo e quindi concludere, va osservato che lo sforzo di sintesi, da parte cattolica, ha due linee guida fondamentali, come bene illustrato dagli studi del gesuita p. Giovanni Sale.

Il quale nota – la sintesi è ancora d’obbligo, e l’analisi è «grossa», ma non falsa – come da un lato, l’allora esponente politico della DC e certamente protagonista dei lavori della costituente, Giuseppe Dossetti, fosse incline ad una propensione più «religiosa» – premendo per il richiamo formale nel testo al cattolicesimo come religione degl’italiani e quindi dello Stato, con il conseguente riflesso sulle regole «di costume» –, che tuttavia trovava senso ed espressione politica in un’avversione al liberalismo, soprattutto nella sua dimensione economica, e cioè al capitalismo. Infatti, come scrive uno dei suoi allievi, il presidente emerito della Corte Costituzionale, nonché più volte deputato e senatore, e già ministro, Leopoldo Elia, «[…] Dossetti manifestava un giudizio fortemente negativo sui ceti medi, sul capitalismo e sulla stessa libertà di iniziativa economica», che considerava «superata di fatto» (A colloquio con Dossetti, cit., p. 142).

Dall’altro lato, secondo lo stesso p. Sale, De Gasperi, capo del governo e della DC, aveva un approccio più «conservatore» alle questioni socio-economiche, ma inclinava ad una più marcata laicità ed a-confessionalità del partito e dello Stato, di marca tipicamente liberale.

Entrambi, però, come ricorda un altro importante esponente cattolico democratico recentemente scomparso, Pietro Scoppola (1926-2007), erano orientati da una prospettiva i cui esiti sono così descritti: «[…] la Dc ha sempre raccolto un elettorato prevalentemente moderato, che è stato tuttavia coinvolto in una politica prevalentemente diretta […] ad un ampliamento verso sinistra delle basi di consenso […] alla funzione di governo» (ibid., p. 132). In fondo, perché per gli stessi, come ritiene il già ricordato professor Elia, «fare dell’anticomunismo la ragione dominante della propria fortuna politica poteva alimentare tendenze reazionarie» (ibid., p. 147).

Sulla base di queste considerazioni possiamo anche ben differenziare le responsabilità della classe dirigente «alta» della DC da quelle del suo elettorato, e an-che dei suoi quadri periferici.

Tali linee guida non potevano non essere sfruttate sapientemente dal socialcomunismo italiano, invero ben diretto dal prudente e attento Palmiro Togliatti (1893-1964). Questi ovviamente non si lascia sedurre da nessuna tentazione anticlericale e laicista di stampo ottocentesco, anzi concorda all’istituzionalizzazione dei rapporti con la Chiesa, accettando se non promuovendo la costituzionlizzazione dei patti lateranensi che sancivano l’11 febbraio 1929 il concordato tra lo Stato e la S. Sede, pur di consentire al PCI di «firmare» la Costituzione repubblicana, attuando ante litteram il proposito che sarà enunciato trent’anni dopo dall’allora segretario del partito, Enrico Berlinguer (1922-1984): «[…] introdurre […] alcuni elementi, fini, valori, criteri propri dell’ideale socialista» (Austerità. Occasione per trasformare l’Italia, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 25).

Questi «elementi», «fini» etc., si sostanziano in «germi di socialismo» da far crescere e sviluppare nel tempo – di qui la querimonia su una Costituzione sempre da attuare e mai da mutare –, ed il loro carattere programmatico, a prescindere dall’ispirazione che li sostiene, coincide con la prospettiva del cattolicesimo democratico, che, conformemente alla sua connotazione ideologica e quindi utopistica, non aliena cioè da intenti di «riforma» sociale e politica radicale, nondimeno credeva che la Costituzione avesse una «missione educativa e  pedagogica» (A colloquio con Dossetti, cit., p. 151). Infatti, ancora secondo il professor Elia, «[…] Dossetti […] propugnava una riforma per l’Italia così radicale da approssimarsi negli effetti a quelli di una rivoluzione con mezzi pacifici» (ibid., p. 141).

Non riesce perciò difficile, ai tempi, l’accordo fra DC e PSI-PCI, oltre che con le formazioni laiche minori, per dare alla Repubblica un fondamento che non è né trascendente, né spirituale, né morale, ma si riduce a quella formula sul lavoro (art. 1) che, considerata anche la cultura del tempo, non è altro che il lavoro manuale e quindi materiale. Più «dossettiani» che «degasperiani», e questa volta nel dissenso delle forze di cultura più schiettamente liberale, sono le norme sui rapporti economici (artt. 35-47). Esse – insieme con quella dell’art. 53, che prescrive la progressività delle im-poste, conformemente a quanto richiesto a suo tempo dal Manifesto del Partito Comunista – aprono ampi varchi alla forte limitazione, quando non alla vanificazione o all’abolizione (basti pensare alle nazionalizzazioni ed alle politiche dirigiste e invasive da parte dello Stato degli anni 1960 e 1970), della libertà d’iniziativa economica e del diritto di proprietà, varchi nei quali legislazione e giurisprudenza costituzionale non hanno esitato, e non esitano tutt’ora, ad inserirsi. Il principio di eguaglianza (art. 3), poi, e la configurazione di un esecutivo debole (artt. 92-96) – conforme alle esigenze di chi sa di dover compiere una lunga marcia nel deserto dell’opposizione, e di una cultura democratica che esaspera il principio di mediazione e di compromesso – si sono rivelati rispettivamente fattori di profonde innovazioni nel costume tradizionale, fino alla sua sovversione in numerosi aspetti, e d’instabilità politica.

La Costituzione è stata frutto dunque di un patto tra forze politiche che – sebbene «costrette» da rigide esigenze di politica estera a svolgere fino al termine della «guerra fredda» stabilmente il ruolo di maggioranza le une, di opposizione l’altra – non si sono mai delegittimate reciprocamente. Tanto che lo stesso «patto d’unità d’azione» viene riproposto ancora in pieno confronto tra i blocchi occidentale e socialcomunista negli anni della cosiddetta solidarietà nazionale (1976-1979), in cui il PCI pur non entrando al governo entra nella maggioranza.

L’ultimo colpo di coda di tale patto sembra essere stata l’Unione di Romano Prodi. Non è difficile, allora, capire perché i suoi sostenitori, eredi di quella cultura e di quella esperienza, siano stati e siano anche i più accesi fautori del mito della Costituzione repubblicana sempre da attuare e mai da mutare. Per essi, e ritorno in conclusione al professor Quagliariello, «[…] la Costituzione del ’48 è stata […] il programma da realizzare per costruire un nuovo sistema. Il mito della Costituzione, dunque, ha svolto anche una funzione di surroga di una prospettiva rivoluzionaria: la speranza che il “libro dei sogni” potesse divenire realtà» (loc. cit.).

 

 tratto da

“Politicamente scorretto” rubrica in “Storia e Identità – Annali Italiani on line”