Ma è proprio vero che Erdogan ha vinto prima di cominciare?

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Ma è proprio vero che Erdogan ha vinto prima di cominciare?

05 Giugno 2011

La questione in Turchia non è se Erdogan vincerà le elezioni del 12 giugno, tutti i sondaggi sembrano confermarlo, ma se riuscirà a stravincerle, conquistando i due terzi della maggioranza parlamentare necessari per approvare le riforme costituzionali votate a larga maggioranza dai turchi (58 per cento) nel referendum del settembre scorso. Erdogan ha messo al guinzaglio i militari (un decimo dei suoi generali è già agli arresti o sotto processo, grazie all’abolizione dell’immunità, ad un uso spregiudicato della custodia cautelare e al bavaglio messo alla stampa); imbrigliato il potere giudiziario (che insieme ai militari difende la laicità dello stato ed ha bloccato l’introduzione del velo nelle università); e adesso vuole modificare l’assetto istituzionale della Turchia in senso presidenzialista (mettendo un’ipoteca sulla presidenza della repubblica). Sbancare il 12 giugno gli permetterebbe di creare uno stato autoritario "competitivo", dove ci sono ancora partiti ed elezioni, ma si sa già chi le vince e solo uno ha il monopolio del potere. Un modello degno di Putin e Chavez. Ma non è detto che tra qualche giorno le cose andranno in questo modo.

La forbice degli ultimi sondaggi dà l’Akp tra il 43 e il 48 per cento (con punte del 50); se il partito della giustizia e dello sviluppo subisse una contrazione rispetto alle elezioni nazionali del 2007, quando prese il 46 per cento, per Erdogan sarebbe difficile fare tutto da solo. A impedirglielo potrebbero essere i socialdemocratici kemalisti dell’emergente Kilicdaroglu (Chp), un ex burocrate che si è fatto un nome nella lotta alla corruzione: ha aperto al decentramento per i curdi e corteggia l’elettorato sunnita indipendente e quello della minoranza degli Alevi (una branca ‘liberale’ dello sciismo, 20 milioni di aderenti in Turchia). Per questo Erdogan ha attaccato il suo avversario dicendo che non è "un vero musulmano". Il Chp oscilla tra il 25 e il 28 per cento (era al 20 nel 2007) e dalle analisi dei flussi di voto può attrarre elettori nazionalisti e dai partiti curdi. L’altro ostacolo per l’Akp è l’Mhp, quotato tra il 1o e l’11 per cento, che fa concorrenza a Erdogan da destra e di cui il premier ha cercato di sbarazzarsi (vedremo fra un attimo come). Se l’opposizione restasse quella di adesso per Erdogan sarebbe inevitabile cercare un compromesso, una parola che non gli si addice. Tutti i partiti dello spettro politico turco, infatti, sentono l’esigenza di ripensare la costituzione, emendata più volte dai militari (l’ultima volta negli anni Ottanta), ma nessuno vuol lasciare al premier l’opportunità di riscriverla da solo.

Aggiungiamo che questa campagna elettorale è stata carica di violenza, piena di sgambetti e giochi sporchi. Nei giorni scorsi un professori di scuola in pensione è stato ucciso dalla polizia mentre manifestava contro il premier. Ad aprile, uno dei candidati repubblicani è stato ferito in un caffé insieme ad altre 27 persone, durante scontri fra le diverse fazioni. A maggio, un convoglio della polizia di ritorno da una delle tappe del rally elettorale di Erdogan è stata assalito a colpi di bombe da ignoti. Erdogan ha ordinato di arrestare i generali ma soprattutto ha decapitato la leadership degli altri partiti con una campagna moralizzatrice illegale e diffamatoria. Diffondendo video e intercettazioni su relazioni sessuali di politici turchi con minorenni e prostitute, ha costretto l’ex capo del Chp a farsi da parte e 10 membri dell’Mhp a rassegnare le dimissioni. (La segreta speranza di Erdogan è che l’Mhp non riesca a superare l’altissima soglia di sbarramento per entrare nel parlamento – il 10 per cento – risucchiando l’elettorato della destra nazionalista nell’Akp).

A proposito, la Responsabile per la famiglia del partito di Erdogan ha commentato i video sexy spiegando che in Turchia serve la poligamia, perché solo grazie ad essa gli uomini non tradiscono le loro mogli e l’intera società ne trae beneficio. Ecco come il partito di Erdogan usa strumentalmente la battaglia politica per cercare di realizzare la sua agenda islamica. Il vero scandalo sessuale però è la sottomissione della donna al patriarcato.

Bisogna comunque ammettere che in questi anni Erdogan non ha sbagliato una mossa, presentandosi come un eroe del popolo che ne garantisce la libertà e vuol fare giustizia del sanguinoso golpe militare degli anni Ottanta. Il premier riesce a muoversi abilmente fra un conservatorismo pio e compassionevole e la sua ansia modernista, che negli ultimi dieci anni ha fatto decollare l’economia del Paese. I turchi amano Erdogan e lo votano perché ha fatto arricchire la classe media, lanciando Ankara all’inseguimento di Pechino per tasso di crescita (oltre il 9 per cento). In questa campagna elettorale il premier ha puntato tutto sullo sviluppo del Paese, presentando faraonici progetti infrastrutturali, nuove dighe, il raddoppiamento del Bosforo, la costruzione di due new town, enormi investimenti per generare maggiore occupazione. Anche quando ha visitato le città curde come Diyarbakir ha promesso che il suo governo favorirà la diffusione dell’industria turistica (la questione curda ha fatto decine di migliaia di morti. E’ uno dei tanti temi caldi della sua campagna.) Erdogan, infine, ha all’attivo una politica estera inedita per la Turchia, che viene percepita come un successo dai suoi elettori: il neo-ottomanesimo segue solo formalmente l’integrazione europea, sostituendola con l’espansionismo economico nei Balcani e nel Caucaso, gli accordi sul gas con la Russia, la sponsorizzazione della Freedom Flotilla e i mal di pancia sulla Libia (Ankara è uno dei membri della NATO). Ai turchi piace anche l’indipendenza mostrata dal premier verso gli Usa.

Ma come dicevamo se il 12 giugno Erdogan vincerà senza stravincere dovrà fare ancora i conti con un parlamento non del tutto ai suoi piedi. Una eccessiva polarizzazione dello scontro politico potrebbe danneggiarlo sul medio periodo e favorire l’apparizione di un outsider e di uomini nuovi. In Turchia qualcuno parla già di un "dopo Erdogan". Kilicdaroglu è l’avversario più accreditato ma cresce la curiosità attorno a Numan Kurtulmus, che oggi è il terzo politico più amato del Paese. Secondo i giornali laici, Kurtulmus sarebbe capace di dare vita a un governo di centrodestra, o una grande coalizione fra Akp e Chp, per riscrivere la costituzione senza rivoluzionare gli assetti pubblici e istituzionali che la Turchia conosce da sessant’anni. Professore di economia attento ai temi della disoccupazione giovanile e dell’indebitamento delle famiglie, l’anno scorso ha fondato un partito tutto suo, il People Voice Party, che è ancora all’un per cento ma considerando il personalismo della politica turca potrebbe moltiplicare in breve tempo il suo consenso (secondo un’indagine universitaria turca l’Akp potrebbe cedere fino al 24 per cento del suo elettorato ad un gruppo di forze che vanno dal People Voice Party, la formazione di Kurtulmus, al Great Union Party e ad altri minori).

Kurtulmus sarebbe in grado di unire i "social conservative" dell’Akp, stanchi di vivere in un partito fatto a immagine e somiglianza del capo, dove le purghe sono frequenti e micidiali, con i liberali, i critici della eccessiva "burocrazia statale", e con i nazionalisti scontenti dell’esasperato laicismo che non ha giovato granché alla repubblica di Ataturk. C’è gente, sul Mar Nero e sull’Egeo, che non tollera più il disprezzo di Erdogan per la questione ambientale. Per molti turchi le idee del premier sulle donne, che secondo lui dovrebbero figliare perlomeno tre volte se vogliono essere considerate tali, sono solo sciocchezze. Chi usa  Facebook è stato accusato di idolatrare una tecnologia "immorale". In Turchia se vuoi connetterti a Internet devi utilizzare gli appositi filtri regolati dallo stato: uno stato di polizia, secondo Time, che denuncia il potere della fratellanza religiosa guidata all’hocaefendi Fethullah Gulen, in esilio volontario negli Usa. L’Economist è ancora più chiaro: votate Kilicdaroglu per salvare il Paese.