Ma Gentile doveva essere giustiziato?

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Ma Gentile doveva essere giustiziato?

Ma Gentile doveva essere giustiziato?

13 Aprile 2014

La morte di Giovanni Gentile, ucciso  il 15 aprile 1944 a Firenze appena arrivato  a casa, a Villa Montalto, alle pendici di Fiesole, è uno dei grandi delitti italiani irrisolti, come quello di Moro, perché si sa chi ha sparato, un gappista, e che fu rivendicato dal Pci, ma rimangono  dubbi sui mandanti, perché erano molti a volerlo morto per la sua campagna di pacificazione: Gentile non voleva che gli italiani si scannassero tra loro, come nella secolare storia della penisola, mentre due eserciti stranieri combattevano furiosamente sul suolo italiano per decidere il futuro dell’Italia.

I comunisti lo condannarono a morte nel marzo ’44 sulla “Nostra Lotta”, ma anche sulla Stampa – come ha ricordato Gennaro Malgieri in questi giorni – giornalisti solitamente non estremisti lo attaccavano sdegnati come alcuni intransigenti della Rsi. La Ghirlanda fiorentina, in uscita da Adelphi il 16 aprile, di Luciano Mecacci, autorevole psicologo dell’ateneo fiorentino, è un volume documentatissimo, che apre molte zone d’ombra del delitto Gentile e nuove piste su mandanti e complici. Con intelligenza e pazienza, Mecacci, usando il metodo delle costellazioni, ricostruisce reti di  interessi disparati – da quelli politici a quelli più banalmente accademici – che con strategie diverse avevano in comune l’obiettivo della morte dell’ultimo grande filosofo accademico italiano.

Ritorna la pista britannica: dall’italianista scozzese John Purves, a Firenze nel ‘38 incaricato dai servizi segreti inglesi di raccogliere nomi e informazioni di uomini di cultura utilizzabili dall’intelligence britannica nell’imminente conflitto all’orizzonte, che dette appunto il titolo di Ghirlanda fiorentina alla lista dei nomi raccolti, a radio Cora, l’emittente azionista fiorentina in contatto con gli inglesi, a Bernard Berenson nella splendida villa di Settignano con ospite Igor Markevitch, ai servizi segreti britannici di radio Bari, fino  agli azionisti fiorentini, i quali per primi cercarono un killer per Gentile.

Ci sono poi gli accademici, il meglio dell’intellighenzia italiana del secondo Novecento, amici, allievi e collaboratori di Gentile: Cesarini Luporini, Eugenio Garin, Mario Manlio Rossi, Antonio Banfi,  Guido Calogero, Ranuccio Bianchi Bandinelli, Concetto Marchesi e, sullo sfondo, l’inquietante Igor Markevitch, con un ruolo importante nella rivista fiorentina “Società”, a cui collaborano Ranuccio Bianchi Bandinelli, Romano Bilenchi e Luporini. In questo puzzle di doppi giochi e ipocrisie di ogni tipo, il filosofo marxista e senatore comunista Luporini rimane la figura più coerente e più umana, perché la sua appartenenza al Cnl e al Pci era nota a Gentile.

Dopo la pubblicazione de La Sentenza di Luciano Canfora, che riaprì il dibattito sul delitto Gentile, in una trasmissione radiofonica del 1989 in onore di Eugenio Garin, Luporini, ancora sconvolto per la morte di Gentile, rivela che “ci sono cose che forse ancora non si possono dire”. Attento ai dettagli, senza mai puntare il dito, in oltre cinquecento pagine Mecacci tenta di scoprire le cose che Luporini pensava non si potessero ancora dire nel 1989.

Mecacci ricostruisce il grande affresco della Firenze dell’aprile del ’44, quella di “Italia e civiltà”, fondata e diretta da Barna Occhini, genero di Giovanni Papini, con collaboratori come il giovanissimo Giovanni Spadolini, Ardengo Soffici e il giovane filosofo Raffaello Franchini, che accusò della morte di Gentile gli intellettuali del Cln e gli accademici, gli amici, gli allievi e i collaboratori di Gentile, quella dei professori di Lettere e filosofia, quella dei massoni, quella di Carità, quella dei tedeschi, quella dei gappisti, organizzati in una struttura piramidale, simile a quella delle Brigate rosse, quella dei partiti del Cln toscano.

Descrive vari salotti fiorentini, dove s’incontrano spie, artisti, future celebri ballerine, nobili, scrittori, intellettuali, accademici, massoni e perfino ufficiali tedeschi. Mecacci approfondisce un episodio finora ignorato dagli storici che si sono occupati di Gentile, ma che non sfuggì all’ineffabile Berenson: l’uccisione del segretario fidatissimo di Gentile, Brunetto Fanelli a Cercina, il 10 aprile, insieme a cinque giovani della zona. Una esecuzione inspiegabile, compiuta non si sa da chi – se  da tedeschi o italiani travestiti da tedeschi – perché Fanelli non era un attivista politico di alcun genere. Il cadavere di Fanelli e degli altri cinque furono nascosti e solo il 15 aprile Giovanni Gentile seppe della fine del suo segretario.

Le ore precedenti la morte Gentile le passò sconvolto dall’uccisione del suo segretario e preoccupato dalla scomparsa di documenti importanti affidati a Fanelli. Poiché il 18 aprile Gentile doveva recarsi a Gargnano a incontrare Mussolini, dove si sarebbe discusso dell’impiego dell’ingente eredità Feltrinelli lasciata all’Accademia d’Italia a Firenze, la strana uccisione di Fanelli, la casa messa sottosopra alla ricerca di qualcosa, e il materiale importante che il filosofo voleva recuperare, aprono l’autore alla nuova prospettiva che i colpi sparati a Gentile non siano stati per il suo passato, ma per il ruolo che avrebbe potuto avere in futuro.

E’ noto che Gentile fin dal 24 giugno del ’43, nel famoso discorso del Campidoglio, e sul Corriere della Sera alla fine del ‘43, dopo l’adesione alla Rsi, si era posto come obiettivo quello della pacificazione nazionale. Gentile voleva evitare qualsiasi guerra tra italiani e, per questo, in un’Italia divisa e occupata da angloamericani e tedeschi, invitava sia i partigiani sia i fascisti a non prendere le armi gli uni contro gli altri. Gentile non era un pacifista, né un filosofo con la testa tra le nuvole, era un realista politico e sapeva quanto sia importante per un popolo rimanere unito e dignitoso anche in caso di sconfitta.

Gentile fu il filosofo della nazione, al fascismo era arrivato attraverso la riflessione sul Risorgimento, era consapevole come l’unificazione italiana fosse stata un processo elitario e quanto fosse necessario farla diventare un valore di tutti. Il fascismo, come disse nel ’27, inaugurando l’Istituto nazionale di cultura fascista, consisteva per lui nel tentativo di unificare “una nazione di quaranta milioni di uomini; una nazione tra le più antiche del mondo, passate per tutte le esperienze, esperta in tutte le idee, logorata da tutte le ideologie e da tutte le tirannidi, e, almeno apparentemente, prona allo scetticismo e alla indisciplina”. Non aveva la testa tra le nuvole Gentile.

Aveva lavorato una vita, scritto tanto, per tentare di fare diventare l’Italia una nazione, e non voleva vederla spezzarsi nel sangue, alleata a due eserciti stranieri. Voleva evitare una guerra tra italiani e forse pensava a una soluzione per evitarla, forse ne avrebbe parlato a Mussolini, e per questo fu probabilmente ucciso. A settant’anni dalla morte di Gentile, ai tanti storici e filosofi accademici che anche negli ultimi anni hanno continuato a ripetere che Gentile doveva essere ammazzato, l’unica obiezione sensata pare il dubbio con cui Paolo Mauri conclude la recensione al libro di Mecacci su Repubblica: “Ma Gentile doveva essere giustiziato?”.

Dall’immediato dopoguerra a oggi su Gentile si sono accumulati tanti  grovigli politico-ideologici ed equivoci, e c’è una singolare alleanza tra filosofi, che, sulla scia del Garin del 1955, ritengono che dall’attualismo si potesse addirittura passare al comunismo, e storici per i quale Gentile, filosofo reazionario e fascista, doveva essere giustiziato. Il libro di Luciano Mecacci rappresenta, dunque, un contributo importante, per uscire dalla palude di grovigli e di equivoci diventati ormai insostenibili e riaprire la strada alla ricerca.