Ma la riconciliazione è sempre più vicina

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Ma la riconciliazione è sempre più vicina

15 Ottobre 2007

Da tempo si sapeva che la guerra in Iraq sarebbe stata vinta
dagli iracheni, e così è stato. Ma gli iracheni che hanno vinto sono dalla
nostra parte.

Era la primavera del 2004 – circa un mese prima che
arrivassi a Baghdad a bordo di un taxi, diretto ad un minuscolo hotel – ed i
sunniti avevano appena lanciato la loro disastrosa, disperata offensiva. La
sconfitta del fronte sunnita fu ancora più evidente nell’autunno scorso, quando
le voci riguardanti una recente espressione patriota da parte delle tribù nella
provincia di Anbar divennero ufficiali, unitamente alla pacificazione e alla
novella prosperità di Fallujah e Ramadi, all’isolamento di Al Qaeda e alle
aperture dei baathisti sconfitti verso la pace.

Quella prima stagione di gravi combattimenti si prolungò
sino alla sollevazione degli sciiti più poveri d’Iraq, con a capo Moqtada
al-Sadr ed il suo esercito Mahdi. Per sei volte durante quei combattimenti attraversai
con gli iracheni la zona nota come “triangolo della Morte”, tra le città
sunnite a sud di Baghdad, per scrivere degli eventi che avevano luogo a Najaf.
Sull’autostrada, circondato da camion che trasportavano militari dell’esercito
Mahdi che recitavano le loro preghiere insieme ai morti delle battaglie per
Sadr City, potevo vedere in lontananza le bandiere verdi e nere dei santi
sciiti sui tetti delle case, e mi sentivo al sicuro.

Perché quella sensazione di sicurezza alla vista delle
bandiere sciite? Perché il Triangolo della Morte era diventato così letale?
Cosa diavolo stava cercando di fare l’esercito Mahdi, sfidando i marines e le truppe aviotrasportate degli
Stati Uniti in una battaglia frontale?

Gli avvenimenti degli ultimi tre anni in Iraq hanno
confermato la risposta a queste domande, inizialmente appena accennata. Le
bandiere simili a stracci degli sciiti, che penzolavano senza vita, erano un
buon segno: perché non erano più gli sciiti, ma i sunniti, quelli che
decapitavano le persone. La violenza dell’islamismo in Iraq era allora, così
come lo è oggi, un fenomeno del wahabismo – il fondamentalismo sunnita. I
sunniti erano anche quelli che rapivano le persone, e che imbottivano le auto
di esplosivo per uccidere a caso i civili.

Il Triangolo della Morte era definito tale perché i
baathisti che vi abitavano – infuriati per l’aver perso i propri privilegi di
apartheid e disperati alla prospettiva che il caos mandasse all’aria i loro
progetti – erano pronti a vendere chiunque ai wahabiti, che a loro volta
avrebbero amputato teste preziose affinché la televisione consumasse la volontà
di combattere il caos. L’esercito Mahdi era disposto a morire non perché nei
suoi leader prevalesse la convinzione di una reale possibilità di sgominare gli
americani – i suoi comandanti erano troppo intelligenti per pensarlo; ma
affinché Sadr guadagnasse preziosi credenziali nazionaliste, in quanto unico
iracheno-sciita, o di qualsiasi altra etnia che fosse in grado di affrontare
gli USA.

A Najaf apprendemmo che lo sguardo di Sadr era rivolto alla
politica interna. Era chiaro che i suoi uomini tutt’ossa, con i camion da
fatica e le armi leggere – uomini che sulla via di Baghdad erano impauriti quanto
me dalle minoranze sunnite – non avevano la tempra necessaria per conquistare
il paese. La politica interna per Sadr non poteva voler dire fare bottino
pieno; ma solo accaparrarsi quanto possibile. Se fosse stato così razionale da
spingere gli americani al limite della sua distruzione, ma mai oltre – proprio
come in effetti dimostrò in entrambe le sue ribellioni – il ballottaggio promesso
per il 2005 sarebbe stato il suo vero terreno di battaglia.

Tali linee di azione politica sono andate affermandosi
diligentemente in Iraq negli ultimi tre anni, gettando le basi per la vittoria
a cui stiamo assistendo oggi. I sunniti del Baath hanno continuato ad uccidere
per rimpossessarsi di quanto un tempo possedevano, fino a quando la scorsa
estate hanno dovuto subire la storica sconfitta della battaglia di Baghdad,
inflitta loro di propria mano. Gli sciiti d’Iraq hanno intenzione di restare,
ed oggi i salotti dei mediatori di Baghdad sono colmi di baathisti col cappello
in mano, terrorizzati dagli squadroni della morte sciiti che essi stessi hanno
ispirato e disposti a tutto per accaparrarsi una fetta della torta che sancisce
la spartizione del mercato del petrolio. Nel frattempo i wahabiti, in gran
parte forestieri, rispondono ad un potere più grande e restano ciechi alle
lusinghe di prosperità o persino solo sopravvivenza, seguitando ad uccidere ma
ritrovandosi sempre più isolati.

Un terzo elemento della violenza sunnita è di origine
tribale. Questo è riscontrabile in prevalenza nella provincia di Anbar,
nell’Iraq occidentale, dove le tribù sunnite hanno tradizionalmente prosperato
attraverso il banditismo sulla via di Damasco. Combattere i forestieri è una
vecchia abitudine nella terra irachena dei banditi sunniti. Lo è anche fare
soldi – e l’Anbar oggi, mentre gli iracheni si apprestano a gozzovigliare nei
proventi derivati dal commercio del petrolio, è uno dei luoghi più sicuri
dell’Iraq.

È sempre stato chiaro che le tribù sunnite avrebbero finito
per imbracciare le armi contro i sauditi, i giordani e i siriani che
insistevano nel proibire il fumo, uccidevano i rivenditori di whisky, facevano
saltare le loro infrastrutture petrolifere, giustiziavano gli sceicchi di
antiche tribù e obbligavano le ragazze a sposare “emiri” dell’assurdo Stato
Islamico d’Iraq. Alla fine i leader tribali dell’Anbar e i baathisti sarebbero
stati corrotti, in maniera diretta oppure ricorrendo alle garanzie che promettevano
indirettamente una fetta di quello che sarebbe divenuto un paese molto ricco.

Almeno 14.000 giovani uomini nell’Anbar si sono arruolati
nel servizio di sicurezza nazionale da quando la surge ha avuto inizio in febbraio, ed il Primo Ministro iracheno Nouri
al-Maliki ha cominciato a rivolgersi ai vari leader locali. Ora l’insurrezione si è trasferita in altre
province, dove in realtà non vorrebbe trovarsi. Sconfiggerli in questi luoghi
sarà più facile, come sta accadendo nella zona del Dyiala.

Per quanto riguarda Sadr, avevo riportato le prime
avvisaglie della sua conversione democratica nel 2004, quando un membro
altolocato della sua commissione politica mi aveva riferito che avrebbe fondato
un partito e partecipato alle elezioni, una volta indette. Ancora oggi il
partito non è stato formato; ma ebbi modo di veder confermate le mie teorie
quando passai cinque settimane con il suo esercito Mahdi a Sadr City, nel
dicembre 2005, in
piena campagna elettorale: lo vidi impegnarsi nelle questioni elettorali con entusiasmo
e astuzia.

Chiaramente tali sentimenti riflettono il suo essere a capo
del più grande movimento popolare nel paese. Oggi Sadr controlla cinque
importanti ministeri e circa 30 membri del Parlamento (all’interno di uno dei
due blocchi più rilevanti), sottoscrivendo il progetto del pluralismo in Iraq
così come sin dal 2004 si è premurato di fare.

Quindi – sconfitta l’insurrezione sunnita, con i
nazionalisti sciiti all’interno del governo, avendo evitato la frammentazione
interna e la guerra civile vera e propria, l’Iran ridotto ad un mero fastidio
nella peggiore ipotesi, le divisioni settarie locali oramai una fantasia e la
Casa Bianca che non dovrà ammettere la
sconfitta sotto la pressione di tre attacchi IED (con ordigni esplosivi
“sporchi” di fabbricazione artigianale) al giorno – i problemi della politica
irachena possono dirsi risolti. Malgrado l’enorme prezzo pagato per queste
vittorie, i nostri propositi hanno operato per il meglio.

La violenza continua in Iraq, ma si tratta nella maggioranza
dei casi di fenomeni locali: vendette cicliche, lotte di fazione, crimine,
brutali giochi di potere di quartiere. Ed è in calo. Le vittime civili irachene
in settembre, così come quelle militari statunitensi, si sono dimezzate nella
prima metà di quest’anno. Per dicembre saranno ancora inferiori.

Nel frattempo la riconciliazione, che comunque non sarà mai
completa, procede. Con l’enorme successo delle due elezioni del 2005 ed i
festeggiamenti in tutto il paese durati una settimana a celebrare la vittoria
calcistica di luglio, vediamo come alcune unitarietà profonde sono
sopravvissute ai 35 anni di incubo baathista. Si può perdonare ai curdi e agli
sciiti di non voler ricompensare immediatamente i sunniti per la distruttiva
ribellione che è seguita a 35 anni di apartheid e genocidio.

Dall’ambito locale a quello nazionale, si può constatare che
la stragrande maggioranza degli iracheni dimostra una enorme tolleranza. Denaro
federale viene riversato nell’Anbar, e solo a Baghdad quest’anno il governo ha
riaperto 30 moschee sunnite, in prevalenza nel settore est a maggioranza
sciita. Oggi l’esercito Mahdi e le tribù sunnite nel Triangolo della Morte
stanno negoziando un modus vivendi.
Lo sceicco sunnita Fawaz al Gerba, ex generale, sta facendo lo stesso nei
pressi di Mosul. E lo sceicco Harith al Dari, come capo dell’Associazione degli
Studiosi Islamici – il primo gruppo sunnita, che molti iracheni un tempo
chiamavano l’Associazione dei Rapitori Islamici – si comporta allo stesso modo
con gli sciiti in varie parti del paese.

Il più forte elemento unificatore al momento potrebbe essere
proprio quello più scontato. L’aiuto degli stranieri è ben accetto in Iraq. Il
Primo Ministro, che dopo le eroiche elezioni irachene vanta una maggiore
legittimità popolare rispetto a molti leader
mondiali, rimarca spesso che la
Coalizione è presente sul territorio in quanto ospite gradita
ed invitata. Quando il Senato statunitense ha votato il suo disincantato
“progetto” per un federalismo estremo in Iraq la scorsa settimana, le proteste nel
paese hanno superato qualsiasi divisione settaria. L’Iraq ha già una
costituzione. È stata scritta da iracheni liberamente eletti, ed è stata
ratificata con un voto coraggioso da parte di una schiacciante maggioranza
pubblica due anni fa.

Migliaia di americani insieme ai loro alleati sono morti per
dare all’Iraq questa occasione. Abbiamo dimostrato enormi capacità e coraggio
nell’aiutare gli iracheni a combattere i loro nemici, ed incommensurabile buona
volontà nel mandare i nostri giovani a proteggere scuole, moschee e cabine
elettorali irachene. La ragione per cui stiamo vincendo questa guerra insieme
agli iracheni è che il suo scopo è proprio di dare loro quello che vogliono.

Bartle Bull è direttore dell’edizione
internazionale di Prospect Magazine e del Middle East Monitor. Pubblicherà il
suo prossimo libro, “Babylon”, con Grove/Atlantic nel 2008.

Traduzione di Alia K. Nardini