Ma l’Iraq non va lasciato

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Ma l’Iraq non va lasciato

28 Maggio 2006

Non è né bello né giusto abbandonare l’Iraq adesso, e anzi è sbagliato. Il ministro Massimo D’Alema può usare, come fa, un tono pacato nel descrivere la scelta come graduale e nell’annunciare il suo prossimo amichevole dibattito con gli americani: si tratta pur sempre di una decisione che, presa così in fretta, risulta estremista e in controtendenza, specie oggi. Ci sono dei problemi di opportunità nei rapporti interatlantici; dei problemi legati alla fase storica in cui la guerra in Iraq si trova; e infine, ma primi in ordine di importanza, dei problemi morali.

Problemi di opportunità: Bush, per quanto sia un’anatra azzoppata dall’opinione pubblica, rappresenta appieno gli Usa rispetto a cui l’Europa rischia la rottura interatlantica, quella della sfida all’attacco terrorista e dell’uso della forza in casi estremi. Proprio perché i due pilastri della coalizione riconoscono gli errori compiuti, acquista più forza la loro scelta di restare quanto si deve e si può come obbligo fondante: è una dichiarazione di fiducia nel futuro dell’Iraq, e soprattutto una ragionevole analisi dello stato del mondo, rispetto alla quale faremmo meglio a compiere, noi europei, una riflessione meno subalterna all’antagonismo, all’orgoglio, alla propria «costituency». In tempi di Ahmadinejad, di Hamas, del revival di Al Qaeda e degli hezbollah, è dubbio se sia sensato che l’Italia aumenti la distanze fra le rive dell’Atlantico

Conviene che l’Italia si faccia caposcuola dello scisma nel mondo occidentale? O ci si deve invece preoccupare per la minaccia terrorista, l’odio, le armi di distruzione di massa degli estremisti islamici? E ancora, vuole il governo rispondere in modo più ponderato alla domanda se usare talora la forza sia giusto? Andarsene senza neppure salvaguardare di fatto una missione civile che resti a aiutare gli iracheni (dato che occorrono diversi armati per ogni civile impegnato sul campo) è un voto contro il crescente buon senso anche europeo dopo Madrid e Ahmadinejad. L’asse islamista è forte e unito come non mai, ha piani seri, non combatterlo può costare la vita. In secondo luogo, il momento è il meno indicato: il nuovo primo ministro Nouri al Maliki ha messo insieme un gruppo di figure competenti e serie, ma per dare spazio a un gioco democratico e calmo fra i gruppi etnici e religiosi, deve soprattutto mantenere l’ordine pubblico. Maliki perciò si è tenuto la Difesa e gli Interni; il trend è positivo con una quarantina di attacchi al giorno rispettto ai 150 di pochi mesi fa, ma ci vuole tempo e forza per migliorare ancora, e gli Usa hanno segnalato che restare accanto a Maliki adesso serve proprio per ristabilire l’ordine a garanzia del nuovo trend positivo non lo si sa. Bernard Lewis ha detto che per l’Iraq vige la formula «good news no news», i media e i politici usano toni da giudizio universale

Invece, potremmo permetterci uno o due sorrisi. Pilastro dell’ottimismo è l’ayatollah Sistani che si pone come un baluardo contro gli sciiti iraniani; il suo impegno, insieme a quello di moltissimi moderati di tutti gruppi, fa intravedere un futuro di democrazia difficile, con risvolti religiosi, ma dove sarà possibile trovare un accordo fra le parti e in cui le differenze fra gruppi religiosi ed etnie potrebbero essere gestite in maniera democratica. I segnali vengono numerosi dal Brooking Iraq Index che ci segnala il fiorire di 44 stazioni tv, 72 radio, 100 giornali, dai liberali agli islamisti ai comunisti. Il reddito pro capite è del 30 per cento più alto di prima della guerra, ed è duplicato dal 2003. Nel 2004 il 6 per cento degli iracheni aveva un telefonino, ora si tratta del 62 per cento, il 70 per cento dei cittadini ritiene la propria condizione economica positiva, il 58 per cento delle famiglie ha l’aria condizionata. Più di 6 su 10 iraniani si sentono molto sicuri nel loro quartiere, mentre nel 2004, solo 4 su 10. Dalle elezioni del 30 gennaio 2005 neppure un’unità militare è stata sconfitta in battaglia e il reclutamento continua ad andare forte nonostante gli attacchi alle reclute. I gruppi di insorti e terroristi iraniani, in parte locali, in parte importati dall’Iran, non sono,(come ha scritto Max Boots, specialista americano di sicurezza), vietcong o mujaheddin, non possono organizzare un assalto su larga scala né dispongono di un leader come Ahmed Shah Massoud o Ho Chi Min: hanno al massimo il giordano Zarqawi, disprezzato da molti iracheni. Se si pensa che nei primi quattro anni dell’Intifada Israele ha subito 21 mila tentativi di attacco terrorista, si capisce che una democrazia può fiorire anche in condizioni di difficoltà.

E dunque perché vogliamo andarcene proprio ora che le cose sembrano migliorare? Che si configura una crescita civile ed economica? Che gli iracheni si sono guadagnati la stima di tutti col loro eroico comportamento al voto? Che comunque lo si voglia giudicare, hanno indotto un terremoto di pensiero democratico dal Qatar all’Arabia Saudita? Forse dubitiamo che le fughe eccitino e armino, e non calmino, l’integralismo islamico? Il ventesimo secolo vide le nostre micidiali convulsioni per raggiungere la democrazia; nel ventunesimo, dopo pochi anni, sorridiamo saccenti sulla capacità dell’Islam di farcela, e non vogliamo combattere i terroristi che odiano gli occidentali, ma soprattutto i democratici musulmani. Occorre pazienza, occorre coraggio. La pazienza e il coraggio però non sembrano le virtù politiche di moda oggi in Italia.