Ma l’Italia si mobilita per Regeni o contro Al Sisi?

LOCCIDENTALE_800x1600
LOCCIDENTALE_800x1600
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

Ma l’Italia si mobilita per Regeni o contro Al Sisi?

11 Aprile 2016

Dal primo giorno del ritrovamento del cadavere di Giulio Regeni, visiting student all’American University del Cairo, i giornali dell’establishment hanno subito puntato il dito contro Al Sisi. Mentre i due tecnici della Bonatti uccisi i primi di marzo in Libia sono stati immediatamente dimenticati, media, blog, social network si sono mobilitati contro l’Egitto. L’ambasciatore Massari ha dichiarato al Corriere il 6 febbraio che Regeni era stato seviziato e torturato e di avere temuto una fine terribile fin dal giorno della scomparsa, avvenuto nel quinto anniversario di piazza Tahrir. L’amico di Regeni Gennaro Gervasio – diceva l’ambasciatore – gli aveva telefonato preoccupato perché aveva atteso invano Regeni per quasi due ore e temeva fosse caduto vittima del regime.

Un po’ strano che dopo un ritardo di due ore si lanci subito un’accusa così pesante: l’ipotesi è ammissibile solo se il mondo universitario di cui facevano parte Gervasio e Regeni viveva in un clima di terrore, ma allora è difficile spiegare perché si continuasse a svolgere tranquillamente attività accademica, e perché proprio Regeni, l’ultimo arrivato, sia stato nel mirino. Il supervisor di Regeni, Gilbert Achcar della School of Oriental and African Studies della London University, replicando alle accuse di giornalisti italiani che Regeni sarebbe stato mandato allo sbaraglio al  Cairo, in una lettera a “Open Democracy” del 29 febbraio,  pubblicata lo stesso giorno da “Il Sole 24 Ore”, ha dichiarato di conoscere vari studenti che hanno fatto ricerca, o la stanno facendo, sui movimenti sindacali egiziani e che non c’era proprio nulla di straordinario nella ricerca fatta da Regeni.

Il generale Al Sisi, il salvatore dell’Egitto dalla dittatura dei Fratelli Musulmani, lo scudo contro il terrorismo islamista, il grande alleato dell’Italia, è diventato all’improvviso il nuovo Hitler. Mai i media si sono tanto impegnati per la morte di un cittadino italiano, tenendo sotto schiaffo governo e magistrati egiziani, e auspicando, come la blogger della Stampa, Francesca Paci, una rivoluzione contro Al Sisi. Per Francesca Paci, autrice dell’Islam sotto casa, e per tanti blogger e giornalisti di sinistra, Regeni è diventato il  martire da gettare in faccia ad Al Sisi e si sono moltiplicate le notizie di movimenti giovanili e sindacali in marcia contro il  dittatore.

Poi, il richiamo dell’ambasciatore e l’irritazione egiziana per la politicizzazione dell’omicidio. Il contenzioso tra il governo Renzi e l’Egitto sta diventando complesso, a tratti fumoso, perché il governo Renzi accusa l’Egitto di non volere consegnare i tabulati telefonici, ma i magistrati italiani hanno il pc usato da Regeni per telefonare e quasi 600mila file che non hanno mai passato agli egiziani. È singolare che giornali “british” come il Corriere non abbiano mai rivelato in questi mesi l’esistenza di un vasto network italiano di riviste online, blog, osservatori, a cui partecipano anche docenti di università italiane, dal 2014 particolarmente attivo in Egitto per contattare e mobilitare dissidenti e sindacalisti, convinti che si possa fare la rivoluzione.

A questo proposito, è particolarmente interessante il sito “Osservatorio Iraq Medio Oriente e Nord Africa” o “OssIraq” che  –  nell’editoriale “Ben Svegliati”, dedicato a Giulio Regeni – dichiara di appoggiare  tutte le rivoluzioni contro le dittature e “vale per l’Egitto di Al Sisi, per la Libia di Gheddafi, per la Siria di Assad, per l’Iraq di Al-Maliki e di tutti coloro che lo hanno seguito, solo per citarne alcuni”. Insieme all’editoriale per Giulio Regeni viene pubblicata una vecchia intervista a Gennaro Gervasio, il tutor e l’amico di Giulio Regeni, sull’Egitto dopo la destituzione di Morsi e  “il ritorno dell’apparato militare”.

Gervasio vive al Cairo da anni e l’Egitto è al centro dei suoi interessi. Phd all’Orientale nel 2005 con una tesi su Intellectuals and  Marxism in Egypt: A history of the secular opposition, 1967-1981, non è “strutturato”, come si dice in gergo accademico, e la sua homepage sul sito della Macquarie University con curriculum, pubblicazioni e interessi di ricerca, mostra il suo passaggio in varie università: Mansura, in Egitto, l’Orientale di Napoli, Bristol in Gran Bretagna, l’American University del Cairo e la Macquarie University in Australia. E’ autore nel 2010 della monografia The Marxist Movement in Egypt, 1967-81, tradotta in arabo, e nel 2012 di Egitto: una rivoluzione annunciata?.

Tra le tante pubblicazioni di articoli e saggi, in particolare sull’Egitto, risulta di particolare interesse Cercando un altro Egitto: tra democrazia e controrivoluzione. Dalle pubblicazioni e dal cv di Gervasio, si deduce  l’interesse di questo globetrotter del marxismo in Egitto, per  un rovesciamento della dittatura di Al Sisi promovendo un’alleanza tra intellettuali marxisti e laici, movimenti di matrice operaia delle zone industriali e i Fratelli musulmani, fuori legge in Egitto dopo la destituzione di Morsi.

Un’altra docente di riferimento di Regeni è Anne Alexander, esperta di movimenti operai egiziani, molto vicina all’opposizione di sinistra che pensa di allearsi con i Fratelli musulmani, ed è un attivista anti Al Sisi, che appare anche in un video mentre protesta contro Al Sisi, durante la visita a Londra. Anne Alexander, come Maha Abelrahman, era la referente di Regeni per le ricerche al Cairo per la tesi di PhD a Cambridge. Non si tratta di studiosi della politica egiziana al di sopra delle parti, ma di accademici politicamente impegnati, il cui obiettivo, come molti di loro dichiarano in numerosi articoli e saggi, era il regime di Al Sisi.

Ma perché i servizi segreti egiziani dovrebbero essersi attivati per torturare  e uccidere Regeni? E perché poi farne ritrovare il cadavere, con i segni delle sevizie subite? Il dottorando non era un agente segreto operativo, le sue pubblicazioni  e interventi erano noti, chiunque poteva leggerli, non aveva segreti.

Al massimo avrà parlato con qualche oppositore della sinistra antigovernativa, ma non è per questo tipo di attività che un servizio segreto decide di uccidere una persona, per di più straniera, mettendo a rischio delicati equilibri nel rapporto con un alleato. Regeni faceva parte di questo network teorico del rovesciamento di Al Sisi con un’alleanza tra operai e Fratelli  musulmani, ma non era un leader di qualche movimento rivoluzionario, non era un Che Guevara e non minacciava Al Sisi. Ai servizi segreti egiziani, che hanno problemi veri, come Isis nel Sinai e il terrorismo islamico che fa esplodere aerei russi, questi accademici stranieri al Cairo saranno sembrati al massimo  un’armata Brancaleone con la fissa della rivoluzione.

Per gli egiziani, che sono stati occupati in questo periodo da manifestazioni nazionaliste per la cessione delle isole di Tiran e Sanafir all’Arabia saudita per permettere il passaggio dello stretto di Tiran agli israeliani, una rivolta operaia era probabilmente l’ultima preoccupazione. E i marxisti italiani del Cairo saranno apparsi come personaggi di quel “small world” descritto da David Lodge nel romanzo Il professore va a congresso, turismo accademico chiacchierone e  squattrinato.

Ma forse il nodo della questione per il governo italiano non è la morte del povero Regeni, ma  il sostegno dell’Egitto al generale Haftar in Libia, il quale non è intenzionato a dare il via libera al governo di Tripoli sostenuto dall’Italia.

In gioco c’è la spartizione del petrolio della Libia e se l’Italia è disposta a destabilizzare Al Sisi per indebolire Haftar, non sono dello stesso avviso le potenze occidentali e arabe, che, mentre da noi infuriava la campagna contro il dittatore assassino di Regeni, hanno fatto a gara per andare al Cairo per sostenere economicamente Al Sisi. Non ultimo, il segretario di Stato Kerry, che il 20 aprile è volato al Cairo, minimizzando i problemi dei diritti umani e dichiarando l’Egitto indispensabile per la pace e la sicurezza nel Sinai e contro il radicalismo dei Fratelli musulmani.

Il governo Renzi minaccia ora di boicottare il turismo in Egitto, ma Al Sisi ha ricevuto il sovrano saudita che ha annunciato un ponte sul mar Rosso che collegherà Egitto e Arabia saudita e  i due Paesi hanno firmato accordi di investimenti per vari miliardi di euro. Dal  2013 l’Arabia Saudita e altri Stati del Golfo hanno finanziato generosamente l’Egitto. La Francia ha annunciato un contratto miliardario per forniture militari, la russa Lukoil comprerà da Eni il 20% di Zohr, la tedesca Siemens ha firmato ieri un contratto per modernizzare le ferrovie egiziane. Gli egiziani non avranno certo problemi a sostituire le imprese italiane. Per il turismo, poi, l’Egitto può contare sui ricchi sudditi dell’Arabia saudita, alleato storico del Regno Unito, dal quale i sauditi sono aiutati nella guerra in Yemen insieme a truppe egiziane.

Fa tristezza il modo con cui è stata sfruttata la morte del ragazzo di Fiumicello, poiché la politicizzazione della fine di Regeni ha avuto solo la funzione di tentare di azzoppare Al Sisi. In questa ennesima  sceneggiata  del circo politico-mediatico, l’obiettivo è solo la Libia, la folle, assurda speranza che la Libia persa nel 1945, riagguantata nel 1969, tradita, bombardata e persa nel 2011 possa tornare “italiana”.

Giulio Regeni era solo un dottorando, anche come attivista era l’ultima ruota del carro, “il manifesto” neppure voleva i suoi articoli e li pubblicava con pseudonimo. Quindi, se i servizi segreti di Al Sisi avessero voluto davvero far fuori qualcuno degli accademici politicamente impegnati, avrebbero scelto con più probabilità l’amico Gervasio, molto più noto, per pubblicazioni e contatti  di Regeni in Egitto e nel mondo, ma Gervasio vive tranquillamente al Cairo da anni, ha le sue idee, incontra oppositori di Al Sisi e a nessuno è venuto in mente di torcergli un capello. La domanda dunque torna ad essere: perché proprio Regeni?

Qualsiasi regime, anche il più ottusamente dittatoriale evita di uccidere universitari stranieri, anche se notoriamente favorevoli all’opposizione, per non avere guai. Regeni non era né Carlo Rosselli, né Che Guevara capo di un piccolo esercito che tentava davvero una rivoluzione, ma un pacifico, quasi sconosciuto dottorando “marxista gramsciano”, come l’ha definito il Manifesto. Di fronte alla strumentalizzazione della sua tragica fine, si prova una pena infinita  e ci si chiede se a qualcuno interessa veramente quello che è accaduto al ragazzo col gattino. (Modificato il 4 maggio 2016)