Ma l’università ha bisogno di scelte impopolari
02 Aprile 2008
In queste settimane si sono
avvicendate in materia di università proposte di riforma che si sono aggiunte
ai programmi elettorali dei due maggiori partiti PdL e PD. Penso in particolare
a quella di Confindustria, al mio intervento su Liberal del 27 marzo, e ora
all’intervento di Quagliariello su l’Occidentale.
Sono emersi alcuni elementi
comuni che fanno sperare nella possibilità che la prossima legislatura porti a
innovazioni di un certo rilievo sorrette da un consenso relativamente ampio.
I punti chiave di una
prospettiva riformista che risponda alle esigenze di modernizzazione del nostro
sistema universitario si possono riassumere nella esigenza di affiancare alla
autonomia la responsabilità e nella necessità di avviare condizioni di vera e
sana competitività fra gli atenei.
Se queste sono le premesse
occorre instaurare un circolo virtuoso che consenta di legare una parte dei
finanziamenti alla valutazione dei risultati conseguiti dalle singole
università, di attribuire agli atenei la responsabilità del reclutamento dei
professori, nel rispetto di verifiche nazionali di idoneità, di consentire
concretamente che una parte della retribuzione dei professori sia collegata ai
risultati conseguiti in termini di qualità della ricerca e della didattica.
A questo riguardo è dunque necessario
intanto un sistema di valutazione, che non può tuttavia esprimersi nelle forme
iperburocratiche e farraginose dell’Anvur, una sorta di orwelliano grande
fratello, e che attribuisca una parte dei finanziamenti agli atenei sulla base
dei risultati conseguiti, come proposto già a suo tempo in un emendamento di An
alla Finanziaria. Credo poi che sia opportuno mantenere un filtro nazionale che
certifichi la idoneità scientifica raggiunta dai futuri professori, ferma
restando la libertà delle sedi di chiamare chi ritengano più adeguato. La
libertà di chiamata proposta dal PD, sulla scia di quanto sostenuto da
Confindustria, se non corredata da una serie di garanzie, rischia di favorire
un generalizzato abbassamento della qualità della docenza e diminuisce la
trasparenza. D’altra parte anche la completa privatizzazione del rapporto può
comportare il rischio di un contratto collettivo nazionale, che
sindacalizzerebbe l’università, ovvero può condurre ad una precarizzazione
della docenza, come risulterebbe dalla applicazione in via esclusiva della
contrattazione individuale. Meglio un meccanismo che nel rispetto di alcuni limiti
fissati per legge preveda la possibilità di contratti individuali con cui
premiare non solo l’”impegno”, ma innanzitutto i risultati della ricerca e la
qualità della didattica. Ovviamente ciò presuppone, come già proposto nel
citato emendamento di An, che una parte delle risorse stanziate sia destinata a
finanziare la contrattazione individuale.
Fondamentale appare l’esigenza
di incoraggiare l’apertura dell’università ai giovani. Occorre intanto
unificare le varie figure di contrattisti in un’unica figura di ricercatore a
contratto, dotata di tutela previdenziale, favorendo altresì la destinazione di
specifiche risorse al reclutamento di giovani ricercatori. Ritengo poi siano le
università a dover decidere se servirsi di ricercatori a contratto o a tempo
indeterminato. Personalmente riterrei un errore la completa eliminazione dei
professori a contratto, che rischierebbe di far perdere utili esperienze
professionali al mondo dell’università; il meccanismo di una libera docenza
nazionale, per soddisfare esigenze di questo tipo, rischierebbe del resto di
essere particolarmente farraginoso.
Un punto centrale da cui non
si potrà sfuggire è quello di incrementare i finanziamenti alle università.
Occorre senz’altro aumentare i finanziamenti privati all’insegna del principio
“niente tasse sulla ricerca”, e tuttavia fino a quando rimarranno ai livelli
più bassi fra i Paesi Ocse lo stato dovrà fare la sua parte. La ricerca va
inoltre liberata dalle pastoie burocratiche e dai tempi lunghissimi per
ottenere i finanziamenti: avere risorse dopo un anno dalla richiesta è un non
senso.
A fronte di un incremento dei
finanziamenti privati, appare senz’altro ragionevole che lo stato si faccia
carico di sostenere la ricerca nel campo delle scienze umane, destinata verosimilmente
ad essere più trascurata dalle imprese.
Una seria competizione non si
può fare peraltro quando molti atenei italiani sono sull’orlo del dissesto
finanziario. E’ un tema questo trascurato in molte analisi. Occorrono piani
pluriennali di rientro concordati fra singole università e ministero, al cui
rispetto collegare l’attribuzione dei finanziamenti. Più che chiudere d’imperio
università o singole sedi, misura non realistica, sarebbe utile innanzitutto
incoraggiare una razionalizzazione virtuosa dei corsi di laurea, che hanno
raggiunto la astronomica cifra di 5450. A questo riguardo, a un decennio dalla
introduzione del 3+2 sarebbe opportuno fare il punto sul suo funzionamento che
per qualche aspetto sembra suscettibile di miglioramento.
Se non appare realistico e
nemmeno utile che vi sia un generalizzato meccanismo di specializzazione in
poche discipline di tutti gli atenei, è senz’altro doveroso che si incoraggi
con incentivi finanziari la specializzazione dei piccoli atenei favorendo il
loro collegamento con la realtà produttiva locale.
Più che liberalizzare la
tassazione universitaria, che sarebbe un aggravio ulteriore per le famiglie e
favorirebbe gli abbandoni, ripropongo invece quanto già ebbi modo di inserire
nel ddl presentato al Senato, vale a dire la possibilità di convenzioni fra
studenti e università in virtù delle quali ci si impegni a versare, conseguita
la laurea, alla università di provenienza, nella prima dichiarazione dei
redditi, e con rate anche pluridecennali, una piccola percentuale. L’aumento
della tassazione è invece giusta su coloro che siano fuori corso da più di un
anno. Per i meritevoli, in particolare se sprovvisti di redditi adeguati, deve
essere esclusa o ridotta qualsiasi contribuzione così come vanno sensibilmente
incrementate le borse di studio.
Un passaggio chiave è la
realizzazione di un sistema trasparente di informazioni agli studenti: dalla
certificazione di qualità che tenga conto dei livelli delle strutture, dei
corsi e dei risultati, con riguardo ad esempio al tempo necessario per i
laureati a trovare lavoro, alle informazioni sui curricula dei singoli docenti.
Infine due punti: la internazionalizzazione
del nostro sistema universitario e la riforma della governance.Occorre
innanzitutto eliminare i vincoli burocratici alle chiamate, consentendo libertà
di chiamata laddove il titolo sia ufficialmente riconosciuto. E’ poi opportuno,
più che una liberalizzazione selvaggia della governance, sperimentare forme
nuove di governo degli atenei che consentano fra l’altro di aprire le
università ad ex alunni e a finanziatori esterni.
Su un tema così delicato come
quello della università occorre essere consapevoli che le resistenze saranno
molto forti. Proprio per questo serve una politica di riforme che proceda con
coerenza e determinazione, secondo una evoluzione graduale, che favorisca la
raccolta di un consenso ampio e che non sia vissuta come qualcosa “contro”
l’università, ma “per” il Paese.
Sen. Giuseppe Valditara